il Fatto Quotidiano, 21 febbraio 2019
Accettare i neologismi
L’ultimo capitolo della saga del Paese di Indignopoli riguarda i Ferragnez, assurti agli onori delle cronache, casomai ce ne fosse ulteriore bisogno, perché entrati nel Libro dell’anno 2018 appena pubblicato dalla Treccani. I Ferragnez sono un po’ la versione nostrana di Brangelina, appartenenti a una specie fortunata (belli e ricchi), gente che non rischia mai di essere friendzonata da nessuno e che per rimorchiare non ha bisogno di speedatare, tanto qualcuno che li sexta lo trovano sempre: se si sentono triggerati, i famosi e gli influencer al massimo rispondono con un emoticon disgustato o scatenano un esercito di troll. Il rischio maggiore è di essere stalkerati o taggatisui social network. Ma attenzione: sono loro che bannano, loro che defollowano. Si tratta in genere di vipparoli, nuovo termine recepito nell’edizione 2019 dello Zanichelli insieme a salottismo, figaggine, spoilerare, Var e triplete. C’erano una volta i tuttologi, oggi sono in buona compagnia degli antitutto.
Se avete già il mal di mare per questa serie di parole strane, non pensate che sia solo una questione generazionale, di essere vecchi o giovani (anzi di essere millennials, altrimenti detti Echo boomers). Dipende anche da quanto siete moderni: la tecnologia è una fonte inesauribile di neologismi perché si evolve velocemente e quindi ha bisogno di raccontarsi. La videochiamata non esisteva prima dei videofonini e ovviamente non ci si poteva whatsappare prima di Whatsapp, skypare prima di Skype. E certo non si potevano photoshoppare le foto prima di Photoshop… E così postare, twittare, messaggiare (ma pure twerkare che c’entra più con la mobilità del bacino che i mobile-phone).
La politica poi, come spesso accade, è la prima a dare l’esempio (non sempre buono) con l’aiuto dei media, vecchi e nuovi. Dopo il 4 marzo (e dopo un lungo travaglio) è nato il governo Salvimaio, figlio dell’alleanza pentaleghista. Ancora prima avevamo coniato Renzusconi (ma anche Lettusconi e Veltrusconi). Leggiamo in continuazione dell’attualissima Brexit (e dell’eventuale Italexit), di Trumpismo e Macronismo; qualche anno fa i giornali erano pieni di bunga-bunga e berlusconiane olgettine, poi dell’annuncite del rottamatore Renzi. In realtà sono moltissime le parole nuove del potere: governance, devolution, meetup, esodati, ecoreati, spindoctor, euroburocrate, neocon, no global, no vax, no Tav… Le leggi normano il mondo che si trasforma e ha quindi bisogno di nuove parole: stepchild adoption, fine vita, omoaffettività. Per non dire del vizio di utilizzare psudolatinismi per nominare le leggi lettorali: Porcellum, Italicum, Rosatellum… L’economia non va meglio: austerity, voluntary disclosure, spending review. Ma anche agenzia di rating, quantitative easing, project financing.
Quasi tutte parole mutuate dall’inglese, abitudine a volte necessaria, troppo spesso abusata: perché i varchi alle stazioni si devono chiamare gate? Non succede così dappertutto. I francesi per esempio hanno adottato la soluzione più drastica: tutto, ma proprio tutto, viene tradotto. E allora perfino il computer diventa l’ordinateur e il software le logiciel (con risvolti appunto comici). L’uso o abuso di forestierismi ha un effetto collaterale molto gradito ai politici: chiamare le cose con nomi nuovi dà anche l’illusione di averle cambiate…
Ora il grammabolario (esiste!) è in continua evoluzione, perché come è noto le lingue vive si trasformano nel tempo (non parliamo lo stesso italiano di inizio Novecento per la banale ragione che la società in cui viviamo è diversa). Solo che adesso ogni volta che compare un neologismo o un nuovo modo di dire, tutti s’inalberano. Perché è un lemma indegno, o perché suscita spiacevoli invidie. Com’è successo tre anni fa quando un bambino di terza elementare si è inventato il fiore petaloso, conio commutato da una famiglia di aggettivi (verboso, peloso, ecc.). C’erano già stati comodoso e biscottoso, ma più d’uno ha alzato il ditino storcendo il naso. C’è però una novità: l’evoluzione della lingua appassiona la gente. Lo dimostra il dibattito social sui Ferragnez, ma anche l’accesa discussione suscitata qualche settimana fa da un articolo del professor Coletti sulla “legittimità” di alcuni modi di dire che rendono transitivi verbi intransitivi usati soprattutto al Sud: “Esci il cane, scendi la valigia, siedi il bambino ecc.”.
Ne è nata una polemica furiosa quanto inutile: non c’è stato nessuno sdoganamento, ma una semplice presa d’atto dell’uso frequente in àmbito domestico. E, aggiungiamo noi, alzi la mano chi – anche senza scomodare Montale – non dice abitualmente “scendere le scale”. Siamo così arrivati all’equivoco di fondo: i linguisti non sono i cani da guardia dell’ortodossia, della purezza o bellezza dell’idioma patrio. Osservano la lingua che cambia insieme a noi (cresce o invecchia, non sempre in meglio). Ci consoliamo con una considerazione: la Crusca, che fino a poco tempo fa per i più era “un aiuto per la tua regolarità”, viene improvvisamente restituita alla dignità di Accademia.