Libero, 21 febbraio 2019
Inchiesta sulle case popolari
Sono 1,7 milioni in Italia le famiglie in disagio abitativo e 650mila quelle nelle graduatorie per l’assegnazione della casa popolare, 65mila nuclei familiari vengono investiti ogni anno da una sentenza di sfratto (una media di 178 al giorno) e 35mila sono quelli sfrattati in modo coatto (fonte: ministero dell’Interno, Rapporto sfratti 2016) a fronte di 160mila richieste di ufficiali giudiziari ai commissariati per usufruire della forza pubblica. Secondo Federcasa sulla nostra penisola si trovano circa 40mila case popolari inutilizzate, di cui 10mila solo a Milano, e sarebbero ben 48mila gli alloggi occupati abusivamente. Sono i numeri agghiaccianti di un Paese in cui il diritto alla casa non viene solo vilipeso ma è stato addirittura dimenticato e cancellato dall’agenda politica, favorendo così l’espansione di una gestione illegale di un settore in cui ormai regna il caos, tanto che ci sembra addirittura normale accapigliarci per stabilire se sia giusto dare qualche metro quadrato prima agli italiani piuttosto che agli stranieri trascurando il dato di fatto incontrovertibile: non saremmo mai dovuti arrivare a questo punto, ossia a questa emergenza abitativa dovuta a decenni di trascuratezza da parte dei governi di ogni colore, impegnati a varare nuove leggi elettorali che garantiscano la poltrona e non provvedimenti che assicurino un tetto sopra la testa a coloro che ne avrebbero bisogno mediante la realizzazione di politiche abitative strutturali che aumentino l’offerta di alloggi a canone sociale.
CALO DI RISORSE
Se negli anni Cinquanta alla tutela del diritto alla casa veniva riservato il 26% degli investimenti pubblici, nel nuovo millennio tali risorse sono scese al di sotto dell’1%, arrivando a toccare progressivamente lo 0,09% della spesa pubblica. Sono ormai lontani i tempi in cui Amintore Fanfani, allora ministro del Lavoro e della Previdenza sociale (1949), rispose alla necessità impellente di case e alla miseria dilagante del secondo dopoguerra con il piano INA-Casa, il “Piano Fanfani”, volto alla realizzazione di edilizia residenziale pubblica. Le cosiddette case Fanfani erano essenziali ma decorose. L’intervento, gestito dall’INA-Casa, mirava ad agevolare oltre al rilancio dell’attività edilizia anche l’assorbimento dei disoccupati nonché la costruzione di alloggi per le famiglie a basso reddito. Per fare tutto ciò fu introdotto un piccolo tributo sulle buste paga affinché lavoratori e imprese fornissero il loro sostegno alle politiche di edilizia popolare. Molti cittadini andarono ad abitare in palazzine civili e ciò influì sulla modernizzazione del Paese. Negli anni Sessanta l’istituto INA-Casa fu trasformato in Gescal e fu aumentato il prelievo effettuato direttamente sulle retribuzioni dei dipendenti pubblici e privati nonché la qualità delle case. In molte città fu risolto il problema abitativo. Nel 1973 l’ente fu soppresso, eppure il contributo continuò ad essere versato per oltre due decenni (fino al periodo 1996/1998). Oggi i fondi Gescal restano aboliti nominalmente, ma vengono ancora prelevati sotto voci di imposta “contenitore”, inglobati nella fiscalità generale. Poco importa che abbiamo smesso di fabbricare appartamenti e che quasi due milioni di famiglie si trovino in condizioni di sofferenza abitativa. La crisi attuale, rendendo proibitivi per molti i costi di un’abitazione in vendita o in affitto, ha reso più precario lo stato di milioni di nuclei familiari. E la recessione ora rischia di fare lievitare ulteriormente il numero degli sfratti, che nel 90% dei casi avvengono per morosità incolpevole e si registrano sopratutto nei piccoli e medi centri urbani italiani. Su oltre 59.609 sentenze di sfratto emesse nel 2017 in Italia oltre 52.500 sono per morosità, di queste ultime 22.629 hanno riguardato i comuni capoluoghi e 29.962 i comuni delle restanti province, elemento che attesta che la problematica non attiene solo alle grandi aree urbane. «Dato che questi numeri si ripetono da diversi anni, non si tratta di un’emergenza, bensì di un problema strutturale che andrebbe affrontato non tamponando la situazione ma mediante politiche abitative programmatiche. Purtroppo mancano questo approccio e tale volontà da parte dei governi che si sono succeduti nonché di comuni e regioni», spiega Massimo Pasquini, segretario nazionale Unione Inquilini, il quale ritiene che in tema di diritto alla casa non hanno senso slogan del tipo “prima gli italiani”, considerato che le abitazioni mancano per tutti. «Ogni giorno è richiesto il nostro intervento poiché finiscono sul marciapiede genitori con figli minori, ai quali queste condizioni di provvisorietà impediscono l’esercizio del diritto allo studio», continua Pasquini. Non ha dubbi il segretario nazionale: «La soluzione non è costruire ancora. Siamo pieni di case vuote perché i prezzi di locazione e di vendita sono troppo alti. È indispensabile aumentare gli alloggi in affitto a canone sociale dal momento che continua a crescere il numero delle persone con reddito medio-basso, che si ritrovano tagliate fuori dal mercato».
IMMOBILI ABBANDONATI
Pasquini si riferisce al patrimonio immobiliare pubblico inutilizzato o addirittura abbandonato, come quello del demanio civile e militare. «Basterebbe recuperare e riadattare questi edifici per metterli a disposizione delle famiglie sotto sfratto o in graduatoria. Inoltre questo sarebbe un modo per creare occupazione dal momento che ristrutturare quegli immobili comporta il ricorso a manodopera. Dunque si darebbe ossigenazione pure al mercato del lavoro», suggerisce Pasquini. In Italia sono assenti politiche sociali della casa: mentre nel resto dell’Europa la media degli alloggi sociali è del 17%, noi ci attestiamo al 3,5%. Tra il 2001 e 2011 abbiamo messo in piedi un milione e mezzo di locali ad uso abitativo, tuttavia continuiamo ad avere un fabbisogno di 950mila abitazioni. Insomma abbiamo cementificato il territorio ma non abbiamo risolto un bel niente. «Il punto è che costruiamo male, senza apportare benefici alla popolazione delle cui esigenze reali i governi hanno smesso di curarsi», osserva Pasquini.