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 2019  febbraio 20 Mercoledì calendario

LAGERFELD FOREVER – LA PASSIONE PER NIETZSCHE, BRAHMS E RAVEL, LA CONTRARIETÀ A FUMO E ALCOL: IL “KAISER” È STATO MOLTO PIÙ DI UNO STILISTA – SI È PURE SCAGLIATO CONTRO L’ISLAM, RINUNCIANDO ALLA CITTADINANZA TEDESCA DOPO LA POLITICA DI PORTE APERTE DELLA MERKEL: “NON PUOI UCCIDERE MILIONI DI EBREI E POI PORTARTI IN PATRIA MILIONI DEI LORO PEGGIORI NEMICI” – E DOPO GLI ATTENTATI DI PARIGI… -

Antonella Amapane per “la Stampa” Un grande genio della moda, colto, carismatico, con una fame di sapere e di creare illimitata. Karl Lagerfeld si è spento ieri all' ospedale americano di Parigi, a Neuilly-sur-Seine, dove era stato ricoverato lunedì. E con lui la moda perde uno dei maestri più illustri e longevi. Il suo nome è indelebilmente legato a Chanel - di cui è stato il direttore artistico per 36 anni - e alle sorelle Fendi, con le quali ha iniziato a collaborare dal 1965. «Un' icona pop», lo definivano nel fashion system.

Le avvisaglie c' erano tutte. Era molto stanco, dicevano giustificandolo, quando alle due sfilate couture di gennaio non era uscito in passerella a raccogliere gli applausi - cosa mai successa prima - mandando avanti Virginie Viard, suo braccio destro da trent' anni che lui sperava un giorno lo avrebbe sostituito. Cosa che la maison pare sia intenzionata a fare: «E' a Virginie Viard - dice un comunicato - che Alain Wertheimer (comproprietario di Chanel ndr) ha affidato il compito di prendersi cura delle collezioni per continuare a far vivere l' eredità di Gabrielle Chanel e di Karl Lagerfeld».

Detto il «kaiser» per le sue origini tedesche (era figlio di una ricca famiglia di imprenditori di Amburgo) - è stato molto di più di uno stilista. Personaggio eclettico, appassionato d' arte e di fotografia, ha sempre creato attorno a sé una corte di amici e collaboratori. A Parigi il suo quartier generale era in rue Cambon, sede storica di Chanel, mentre a Roma la sua casa era la maison Fendi, dove aveva a disposizione il grande archivio di schizzi e disegni delle sue amate fun furs (pellicce divertenti), nome che ha dato origine al celebre logo con la doppia F. Per lui disegnare era come respirare.

Lagerfeld non ha mai dichiarato la sua data di nascita, gli piaceva guardare avanti e mai al passato. Le biografie ufficiali dicono 85 anni, ma sono di più. Lui li nascondeva per vezzo. Di certo, ha iniziato la carriera giovanissimo. A 16 anni, ha vinto, ex aequo, con Yves Saint Laurent, il «Premio internazionale della lana» e da lì in poi la sua carriera è decollata.

Prima con le storiche maison francesi Balmain e Patou. E poi, dopo una serie di collaborazioni (tra queste anche una con Krizia), diventa il grande creativo delle sorelle Fendi. Un legame che dura da oltre 50 anni e non si è mai interrotto. Costellato di pellicce tra le più fantasiose e innovative, con lavorazioni mai osate prima, che hanno fatto tendenza. Negli ultimi anni il suo braccio destro in Italia è stata Silvia Venturini Fendi, con cui aveva grande feeling e che lo ricorda con affetto: «Ero solo una bambina quando ho visto Karl per la prima volta. È stato e sarà sempre la mia luce guida».

In contemporanea con Fendi, Lagerfeld ha tenuto in vita un grande mito della moda come Coco Chanel, marchio che ha saputo innovare e rendere desiderabile e moderno con sfilate-evento dagli allestimenti memorabili al Grand Palais, dove ricostruiva supermercati di lusso, basi lunari, casinò, paesaggi zen, strade parigine con modelle in corteo per la difesa dei diritti delle donne. Lagerfeld collezionava case a Parigi, Amburgo, Montecarlo e in Bretagna, aveva una biblioteca sconfinata (più di 300 mila libri solo nell' abitazione parigina), parlava quattro lingue, pensava e agiva con la velocità di un fulmine.

Contrario al fumo e all' alcol, nel 2000 era riuscito a rimodellare la sua immagine con una dieta che gli ha permesso di perdere 45 chili in poco più di un anno. Voleva assolutamente indossare i sottili smoking che Hedi Slimane creava quando era da Saint Laurent. E da allora ha mantenuto fino alla fine il peso forma e la sua immagine di dandy, con il ventaglio sempre in azione, il codino bianco, gli occhiali neri e l' immancabile bicchiere di Coca Light nel backstage. Negli ultimi due anni aveva un grande amore. Stravedeva per Choupette, la sua gatta birmana, per cui aveva perso la testa. Per lei aveva assunto un cuoco, e ogni giorno postava immagini della gattina su Twitter dove i follower erano oltre 60 mila.

Mistero e sfrontatezza erano la sua cifra. «Volete essere noiosi? Basta essere politically correct», diceva. Era amato e rispettato anche dai colleghi. «Sono così triste che le parole non possono esprimere il mio dolore. Ti amo amico mio....ci vediamo...», ha scritto su Instagram Valentino Garavani che sovente con simpatia raccontava di quando lui e Karl avevano cominciato. Le modelle, tutte, lo adoravano. Dalle giovani («Il suo umorismo, la sua arguzia...vivranno sempre», sostiene Bella Hadid); alle storiche come Carla Bruni: «Penso non ti sarebbero piaciute troppe lacrime, fiori o corone, ma ci mancherai molto. A me come al mondo intero».

2 – LO STILISTA ANTI-ISLAM Gianluca Veneziani per “Libero Quotidiano”

Sulla sua lapide troverete incisa la data di morte ma non quella di nascita, dato che nessuno l' ha mai conosciuta. O meglio, qualcuno ha accreditato l' ipotesi che fosse nato il 10 settembre 1933 e che quindi sia vissuto per 85 anni. Ma è stato lui stesso, lo stilista tedesco Karl Lagerfeld scomparso ieri, a smentire quella ricostruzione, attribuendosi di volta in volta la nascita nel 1935 o nel 1938, forse per la vanità di sentirsi più giovane, forse perché non contava davvero quando lui fosse nato, ma il fatto che fosse nato.

Se non è possibile essere certi sul suo anno di nascita, è pari modo difficile attribuire a Karl Lagerfeld un' identità precisa, riducendola a un' unica professione. Perché lui, uno degli stilisti più geniali del '900, è stato un po' tutto: designer, direttore creativo, fotografo, illustratore, appassionato di architettura e brillante aforista. Un uomo rinascimentale, lo definivano, per la molteplicità dei suoi interessi e il suo eclettismo degno di un essere dal multiforme ingegno.

In tutti questi ruoli, che lui metteva e dismetteva come fossero abiti di una sua collezione da esibire ogni volta facendo un figurone, Karl Lagerfeld non si accodava certo alle mode, perché lui la faceva, la moda. E la improntava a uno stile personale. Tra tutte le cose, odiava il politicamente corretto tanto da affermare: «Se volete essere politically correct siatelo pure, ma non provate a coinvolgere gli altri. Volete essere noiosi? Basta essere politically correct». Fedele a questa convinzione, rompeva ogniqualvolta le righe, risalendo le passerelle controcorrente.

MAI SNOB Pur essendo stato direttore creativo o, meglio, dominus di due delle più importanti case di alta moda mondiali, Fendi e Chanel, Lagerfeld non ebbe paura di contaminarsi coi fenomeni pop, di aprire le sue creazioni a marchi commerciali come H&M, per cui firmò una linea nel 2004. Ostile a ogni snobismo e alla moda chiusa nei salotti buoni, da giovane lasciò la maison di Jean Patou dove lavorava perché «si annoiava» moltissimo, e andò «per due anni in spiaggia a studiare la vita», le persone e il loro modo di vestire.

Uomo di straordinaria cultura, appassionato bibliofilo capace di collezionare 50mila libri, Lagerfeld non sopportava tuttavia i circoli intellettuali e le loro conversazioni oziose perché, sosteneva, «mi interessa solo la mia opinione». Alieno dalle ideologie, rifiutava le battaglie animaliste e ne smascherava l' ipocrisia, rilevando «l' infantilismo» di protestare contro l' uso delle pellicce in una società avvezza a mangiar carne e vestirsi di pelle. Ciò non gli impediva tuttavia di amare profondamente gli animali, come la sua gatta Choupette, a cui ha lasciato un' eredità plurimilionaria.

E soprattutto Lagerfeld è stato un alfiere contro il buonismo di chi ha predicato e praticato l' accoglienza di massa sottomettendosi all' islam. Si è scagliato contro le politiche migratorie della Merkel e della Germania, che hanno spalancato le frontiere ai profughi musulmani: «Non puoi uccidere milioni di ebrei e poi portarti in patria milioni dei loro peggiori nemici», aveva commentato sferzante.

Da qui l' intenzione, comunicata al giornale francese Le Point, di rinunciare alla cittadinanza tedesca. Il che non significava tuttavia voler diventare cittadino di Francia, Paese dove pure Lagerfeld si era consacrato a gigante della moda. La Parigi degli ultimi anni, vittima di immigrazione e terrorismo, gli appariva infatti come «un incubo notturno. Mai l' ho vista così cupa». Prima, spiegava, «la città era un vecchio film francese: non c' era alcuna sensazione di pericolo. Ma io ho vissuto in un mondo che non esiste più».

LA SUA «MASCHERA» Il suo era il disincanto di un instancabile e acutissimo osservatore della realtà, che guardava il mondo per ricrearlo attraverso le sue invenzioni; di un cultore della Bellezza che non poteva non soffermarsi sul Brutto che imperversava. Anche per questa sua disillusione Karl Lagerfeld si era costruito una sorta di maschera, di «caricatura vivente» come lui la definiva, con cui evitare i contatti con gli altri, un profilo di uomo vestito di nero, con occhiali scuri anche di notte e guanti neri a coprire le mani, in contrasto con la sua chioma bianca raccolta in una coda.

Forse era consapevole, soprattutto l' ultimo Karl Lagerfeld, che i capolavori non fossero né i suoi abiti né le sue foto, ma che la vera opera d' arte fosse se stesso. E alla promozione di questo culto si è dedicato, assurgendo nell' immaginario comune al ruolo di Kaiser, come veniva chiamato, o di Lonely King, di Re solitario.

Ma la sua era la solitudine dei grandi e degli unici, dei numeri primi. Come conferma una sua dichiarazione di quando, da giovane, aveva appena vinto un concorso sponsorizzato da Yves Saint Laurent: «Yves lavorava per Dior. Altri giovani che conoscevo pensavano che fosse Dio, invece io non ero cos' impressionato». Forse perché il vero dio già allora non era né Yves né Dior, ma Lagerfeld. E di dio, si sa, non si conosce la data di nascita. Così come è lecito dubitare che sia davvero morto.

3 – LA BIBLIOTECA DI 300 MILA VOLUMI «MI CONSIDERO ABBASTANZA COLTO» Matteo Persivale per il “Corriere della Sera"

Le pagine ingiallite, quasi dorate dal tempo. La carta sottile. Il segno di una penna: il tratto deciso, le sottolineature. Le incertezze. I ripensamenti. La gioia, per Karl Lagerfeld, stava nella lettura, nell' osservazione ravvicinata, nella decifrazione di quelle pagine.

Stava in una lampada da lettura, una sedia comoda, una scrivania. E una grande lente d' ingrandimento a portata di mano. I manoscritti di Friedrich Nietzsche (1844-1900), le annotazioni del filosofo sulle bozze dei suoi libri, erano la gioia di Karl Lagerfeld, che di Nietzsche fu editore: pubblicò, nella sua casa editrice per intenditori e accademici, l' opera omnia del filosofo con i commenti dell' autore, rintracciati certosinamente dai manoscritti.

Un lavoro monumentale completato sette anni e mezzo fa e del quale si dispiaceva di non aver potuto realizzare una traduzione inglese ma soltanto l' edizione originale in tedesco - avrebbe allungato i lavori di quasi un decennio.

Perché in un' epoca intellettualmente più avanzata della nostra - magari nell' antica Grecia o nel Settecento o nella Vienna della secessione - il piccolo Karl Lagerfeld sarebbe stato allevato semplicemente, come diceva Montaigne nelle sue memorie, per diventare «un gentiluomo», lasciando la sua mente libera di spaziare.

In un' epoca più specializzata, come la nostra, gli toccò fare una scelta: chi ne ha conosciuto il carisma e la vivacità dell' intelligenza sa che Lagerfeld avrebbe potuto diventare un grande direttore d' orchestra, un grande architetto, un grande filosofo. Scelse la moda, con le escursioni nella fotografia - riusciva a vendere ventimila copie di libri difficili e raffinatissimi di fotografia, lussuosamente realizzati dall' amico editore Gerhard Steidl - e nell' editoria accademica.

Proprio la fotografia fu uno dei modi nei quali la mente di Karl Lagerfeld ebbe modo di trascendere la moda. La grande mostra fiorentina del 2016 a Palazzo Pitti, le sue immagini collocate a Palazzo Pitti sullo Scalone del Moro, attraverso la Galleria Palatina, la Sala Bianca e gli Appartamenti degli Arazzi, non fu un sacrilegio: le immagini di molti altri fotografi sarebbero risultate semplicemente fuori luogo, in quella sede - non le sue.

Stupiva che uno degli uomini più colti d' Europa - una biblioteca parigina di oltre 300mila volumi: sorrideva ricordando che non era difficile fargli un regalo come molti pensavano, un libro sarebbe sempre stato accettato con gratitudine - definisse se stesso come «ziemlich kultiviert», abbastanza colto. Ma aveva il gusto dell' understatement, a dispetto dell' immagine da Kaiser della moda.

D' altronde uno dei suoi modelli fu il conte Harry Graf Kessler (1868-1937), amico di Rodin e Verlaine, l' uomo che chiuse per l' ultima volta gli occhi di Nietzsche, nobile cronista del crepuscolo dell' Europa. Lagerfeld s' illuminava alla menzione del conte e gioiva quando l' interlocutore ne aveva letto i diari: le camicie dall' alto colletto di Graf Kessler ispirarono il suo vestire ma del conte amava soprattutto «la capacità di dire cose non superficiali utilizzando mezzi superficiali», una pura definizione lagerfeldiana.

Era un classicista - parlava di Brahms e Ravel con competenza direttoriale - incuriosito dalla modernità - ricordava sorridendo come Kessler volle subito conoscere i fratelli Wright per interrogarli sul neonato aeroplano. Il suo modello, in editoria, era la Cranach Press, non esattamente un riferimento popolare, la casa che a Weimar stampò «quelli che restano anche oggi i libri più belli, e i più costosi». Lo irritava la burocrazia francese che faceva le pulci al suo progetto di espansione della biblioteca di casa, e gli dispiaceva la mancanza di tempo. «Ma per i libri cerco sempre di trovarlo: sono una droga, certo, ma una droga che invece di far male fa benissimo alla mente».