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 2019  febbraio 20 Mercoledì calendario

«Il rimorso mi rende nervosa». Intervista a Amélie Nothomb

PARIGI Prétextat, Pétronille, Textor, Astrolabe: i personaggi di Amélie Nothomb si chiamano spesso in modo inusuale. Stavolta invece tutto comincia da Claude e Dominique, nomi piuttosto comuni e identici per maschio e per femmina. Danno il titolo al 27° romanzo della prolifica e molto amata scrittrice belga, I nomi epiceni, edito come sempre in Italia da Voland. Nothomb si riscatta dalla normalità chiamando Epicéne la bambina nata dal fulmineo matrimonio tra la giovane donna di provincia (Claude), conquistata con un flacone di Chanel n° 5, e l’ambizioso e fin troppo deciso giovanotto (Dominique). Incontriamo la scrittrice come sempre nella sua stanza dell’editore parigino Albin Michel, durante una pausa della sua attività preferita, rispondere ai lettori.
Perché i nomi epiceni?
«Mi sono sempre chiesta che effetto facesse, se fosse un privilegio o un problema.Tra i miei lettori molti hanno nomi epiceni e ho constatato tra loro una certa tendenza a coltivare l’ambiguità e a girare la frase in modo da non far capire il sesso. Dopo 3 o 4 lettere non lo capisco ancora, allora pongo infine la domanda: “Lei è un uomo o una donna?”, e 9 volte su 10 mi rispondono: “Indovini lei”. Credo che queste persone abbiano tendenza a coltivare l’ambiguità sessuale».
Fa parte dello spirito del tempo?
«Forse, un secolo fa le cose sarebbero state più complicate. Il titolo del romanzo si è imposto perché la storia parla di una ragazza, Epicéne, non amata dal padre Dominique. A me non è successo perché i miei genitori mi amavano ma quando una ragazza non è amata dal padre ha molta difficoltà a identificarsi sessualmente. Ciò che permette di prendere coscienza più velocemente del fatto che si è una donna è lo sguardo del padre, che nel caso di Epicéne non esiste».
O quando esiste è cattivo. Lei racconta spesso gli orrori della vita famigliare. Dopo la madre anaffettiva di «Colpisci il tuo cuore», ora il padre mostruoso.
«La figlia non amata dalla madre dà un romanzo sulla gelosia, mentre la figlia non amata dal padre sfocia in un romanzo sulla vendetta. Forse in una figlia l’identificazione con la madre è abbastanza forte, se la madre non ti ama è come se tu non amassi te stessa. C’è un senso di colpa che dà quasi sempre luogo alla gelosia. Mentre il padre provoca indignazione. La sua mancanza di amore non è normale. Sono indignata dunque mi vendicherò».
Dominique, abbandonato da una donna nelle prime pagine del romanzo, decide per primo una vendetta a lunghissimo termine.
«Mi sono chiesta quale sarebbe stata la vendetta più contorta possibile. La vendetta si prepara, presuppone una premeditazione più straordinaria di un romanzo. Ce ne vuole molta per Moby Dick, meno per un romanzo di Nothomb, ma sono affascinata da un atto di tale premeditazione».
Dominique fa il male e non ha grandi rimorsi.
«Per niente. È quel che dà una certa nobiltà al personaggio. I rimorsi mi fanno venire il nervoso. Se si decide di fare il male tanto vale andare fino in fondo e farsene carico. Generalmente il rimorso è vigliaccheria, la pretesa di avere la botte piena e la moglie ubriaca: faccio quel che mi pare e in più voglio avere pure la coscienza a posto grazie al rimorso».
Nei suoi romanzi i bambini sono sempre molto brillanti.
«È vero, esistono anche bambini idioti o cattivi e io non ne parlo mai, dovrei farlo per una volta e ci riuscirò. Sono ancora impigliata nell’identificazione personale, ero una bambina – la rassicuro, sono cambiata – intelligente. Ora sono assolutamente stupida ma da bimba ero in gamba».
Nel romanzo c’è quel passaggio molto divertente in cui racconta l’ascensione sociale di Dominique, il suo trasloco nel VII arrondissement di Parigi e il vezzo di dire «passi in rue de Bourgogne», «lasci la lettera in rue de Bourgogne» per sottolineare l’indirizzo chic del nuovo appartamento di famiglia. Come le è venuto in mente?
«È Balzac che ha attirato la mia attenzione. Nel 2015 ho letto tutto Balzac e lui parla molto di questo, non solo della differenza tra Rive droite e Rive gauche ma anche di quella tra lato sinistro o destro di una stessa strada. Quel che dice Balzac nell’Ottocento è vero ancora adesso, Parigi è una città governata dallo snobismo, ma lo è anche Bruxelles. Ho un’amica a Parigi, una parigina très chic, a un certo punto ha divorziato e mi chiama il giorno del divorzio per dirmi: “È terribile, non ho il coraggio di andarci”. E io: “Ti capisco, è una situazione dolorosa”. E lei: “Non hai capito, il tribunale è Rive droite”».
Sta scrivendo il prossimo romanzo?
«Nell’istante in cui finisco un romanzo mi metto a scrivere il successivo. Adesso sto scrivendo il mio 95°, la maggior parte non li pubblico e li tengo da parte. Il mio editore Albin Michel ha già accettato il mio 28°».
C’erano chance che lo rifiutasse?
«Certo, ogni anno per me è suspence totale. Albin Michel me ne ha rifiutati due. Il primo era il secondo che gli ho portato, era ancora normale che accadesse, ma la seconda volta è stata nel 2014. Ho molto apprezzato. L’editore è stato onesto, mi ha detto: “Ascolti, se proprio vuole lo pubblico, ma sarebbe meglio di no”. E l’ho ascoltato».
Lei ha stabilito il rituale personale dei romanzi brevi, uno all’anno. Lo manterrà sempre?
«Non prevedo niente, non ho progetti. Rimango incinta dei miei romanzi, ed è una cosa che succede da sola, è il bebè che decide e di solito ha più o meno lo stesso profilo. Ma non sono immune da una possibile mutazione genetica, potrei scrivere un romanzo lungo. Chi lo sa».