Corriere della Sera, 20 febbraio 2019
Tra i soldati italiani a Herat
Il capannone è gigantesco. Ben visibile a fianco della pista dell’aeroporto. Un intrico di pali e traversine sorreggono centinaia di pannelli di metallo roventi d’estate e gelidi d’inverno. All’interno le luci elettriche illuminano i campi di battaglia simulati, segnati da trincee nel terriccio, dune, avvallamenti, tratturi che riproducono la realtà dei luoghi degli attentati, curve a gomito e canali di scolo dell’acqua dove spesso i talebani e gli altri gruppi della guerriglia pongono mine e trappole esplosive. Nei campi aperti tutto attorno gli istruttori italiani fanno lezione agli afghani sulle tecniche anti-imboscata per i convogli in movimento con il ricorso di cani addestrati e speciali robottini cingolati di fabbricazione canadese, che hanno la capacità di disinnescare gli ordigni grazie al loro cannoncino che spara getti d’acqua ad alta pressione.
I corsi di Camp Arena«Questi sono tra i corsi più apprezzati dai comandi afghani. Mine e bombe artigianali risultano la causa maggiore delle loro perdite», spiega il tenente colonnello Vincenzo Iorio, 42enne di Caserta, che per la Brigata Friuli gestisce le attività di addestramento. È alla sua terza volta in Afghanistan dal 2002. Un veterano delle operazioni all’estero, come del resto lo sono tanti tra i circa 800 militari italiani (una cinquantina a Kabul, il resto ad Herat) operanti oggi nel contesto di «Resolute Support», la missione internazionale composta da 41 contingenti per un massimo di circa 16.000 soldati guidati dagli americani che dal gennaio 2015 hanno cambiato il vecchio mandato Nato-Isaf (il quale dal 2002-3 prevedeva la presenza attiva sul territorio) per trasformarsi in «addestratori e assistenti». In poche parole: da forza combattente di sostegno al governo ad istruttori chiusi nelle caserme con il compito di formare addestratori afghani.
A che punto siamo oggi? Cosa lasceremmo se dovessimo partire nel prossimo futuro, come del resto ha lasciato intendere di recente Donald Trump assieme alla rivelazione dell’esistenza di negoziati aperti tra americani e talebani volti a pacificare il Paese quale promessa per la fine della missione internazionale? Per una decina di giorni li abbiamo seguiti e ascoltati questi professionisti dedicati al compito di contribuire a rendere finalmente le forze di sicurezza afghane capaci di stare in piedi da sole in quella che dalla metà del decennio scorso è stata la «provincia italiana dell’Afghanistan»: la regione occidentale al confine con Iran e Turkmenistan. È stato lo stesso generale Salvatore Annigliato, comandate di turno della guarnigione di Camp Arena ad Herat, a sottolineare la validità degli oltre 300 corsi per quasi 3.000 istruttori afghani in più di tre anni. «Da quelli di pronto soccorso alla formazione dei medici di guerra, alle lezioni di logistica per approntare operazioni militari complesse, sino all’informatica, le tecniche della comunicazione, la strategia anti-guerriglia, la formazione dei convogli, la gestione dei posti di blocco e dei pattugliamenti in aree urbane. A cui si sommano i 45 milioni di euro spesi in 13 anni sino al marzo 2014 dall’organismo militare di assistenza ai civili per costruire strade, acquedotti, il carcere femminile, oltre 100 scuole, aiutare le strutture sanitarie, contribuire all’agricoltura, agli studi universitari compresa una cattedra d’italiano alla facoltà di Lingue di Herat che oggi ha oltre 30 iscritti», racconta. «Per ora tutto continua invariato. Le attività sono regolari. Gli stessi americani e i comandi Nato sostengono che non ci sono ritiri in vista. Ci stiamo preparando per assistere la polizia e la 207esima Brigata di stanza a ovest nella preparazione delle elezioni presidenziali pianificate per il 20 luglio, come del resto abbiamo aiutato quelle parlamentari che si sono tenute in ottobre. Le direttive sono che lasceremo l’Afghanistan solo quando sarà pacificato», aggiunge.
Vittime ogni giornoEppure, sarebbe cieco non rilevare le enormi difficoltà di una situazione regionale e nazionale di grave e crescente instabilità. Lo stesso presidente Ashraf Ghani a metà gennaio ha rivelato che circa 45.000 tra poliziotti e militari afghani hanno perso la vita in scontri a fuoco con i talebani e altri gruppi estremisti di vario tipo (tra cui Isis) negli ultimi quattro anni. Da quando gli afghani hanno la totale responsabilità della sicurezza nazionale non passa giorno che non subiscano vittime. Un numero enorme, visto che in totale sono meno di 300.000. Nonostante la censura imposta da due anni dalle autorità centrali, la stampa afghana riporta continuamente di caserme attaccate e devastate dai talebani con il massacro dell’intera guarnigione e la rapina metodica di armi, munizioni e mezzi. A Camp Arena il tenente colonnello dei Carabinieri Corrado Faggioni mostra uno studio interno dei comandi Usa secondo il quale ogni anno tra morti, feriti, renitenti e disertori le forze di sicurezza afghane perdono quasi un terzo degli uomini. Significa che più o meno ogni tre anni il ministero della Difesa a Kabul è costretto a ricostruire da zero i suoi effettivi, inclusi quelli addestrati dalla forza internazionale di cui gli italiani fanno parte. Uno smacco preoccupante.
Nell’ufficio di Annigliato è lo stesso comandante militare afghano del settore occidentale, generale 54enne Noorullah Qadiri, a raccontarci le sue difficoltà: «In meno di 10 mesi abbiamo avuto 800 morti e 1.100 feriti. Nello stesso periodo abbiamo ucciso 3.000 talebani e ne abbiamo feriti 2.000. Ma loro contano ancora almeno 17.000 guerriglieri, 3.000 nella zona di Herat, sono aiutati da potenze straniere, il Pakistan in testa. Hanno armi e ottimi finanziamenti. Ecco perché ringrazio di cuore la comunità internazionale che ci aiuta e soprattutto gli italiani. Però ancora non siamo autosufficienti. Se fossimo lasciati soli rischieremmo di essere sopraffatti». Con lui cerchiamo di capire cosa si possa fare di più a 18 anni dalla guerra del 2001.
Diciott’anni dopoDove abbiamo sbagliato se la situazione è ancora tanto grave? «Dobbiamo migliorare le squadre degli artificieri, continuare gli addestramenti. I talebani hanno ottime tattiche per attaccare i nostri posti di blocco», replica il generale Qadiri. Grave il fatto che molte delle regioni dove stavano le basi avanzate lasciate dagli italiani nel 2014 siano ora in preda alla guerriglia e alle bande criminali. Vale per Farah, come per Shindand, Balah Murghab e tante delle zone montagnose nel Baghdis. Lo testimoniano 250.000 profughi fuggiti proprio da quelle regioni a causa della siccità, della violenza e del freddo invernale. Adesso abitano in un gigantesco campo di tende alla periferia occidentale di Herat. Non manca un folto numero di rientrati dall’Iran in piena crisi economica. Sono in maggioranza di etnia pashtun e vengono visti dagli Hazara e Tajiki locali come un grave elemento di destabilizzazione. In città sono aumentati i furti, si teme che tra loro si nascondano talebani. «Occorre che gli italiani restino. Sono una garanzia per l’ordine interno e la crescita», dice il 32enne Aduzar Shadaman, proprietario di una nuova pasticceria nel centro. Ha subito tre rapine in otto mesi e adesso tiene in negozio una guardia armata di kalashnikov col colpo in canna.