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 2019  febbraio 20 Mercoledì calendario

Intervista a Novak Djokovic

Sempre magro, occhi spiritati, ma più sereni, in smoking con il panciotto, Novak Djokovic si confessa con il premio Laureus in mano. Il serbo è stato nominato sportivo dell’anno superando la concorrenza di LeBron James (basket), Eliud Kipchoge (maratona), Kylian Mbappé (calcio). È la quarta volta che vince il titolo, ma è la prima autoanalisi di un padre che con due figli non si sente più ragazzo.
Nole, lo dica.
«Devo tutto a Jelena, mia moglie. È lei che mi ha tenuto insieme quando stavo perdendo i pezzi. C’è stato un momento in cui non riuscivo più a trovare un motivo per giocare a tennis, non mi divertivo più, e dubitavo valesse la pena di sopportare fatica e dolore. Volevo smettere, dire basta, ero impaziente sia a casa che in campo. Mi cercavo, e non mi trovavo, ero nervoso, il mio gioco non era granché, e quando stai nel pozzo, più ti affanni e più cadi giù. Maledivo tutti, me stesso, ogni cosa, era sempre colpa del mondo, la sconfitta con Cecchinato l’anno scorso nei quarti al Roland Garros ha fatto il resto. Jelena è stata la mia cura, mi ha incoraggiato a non tormentarmi, mi ha detto che dovevo solo aspettare, e che la famiglia non l’avrei mai persa, lei era lì e ci sarebbe sempre stata. Bisognava solo avere pazienza, non distruggere quello che avevamo costruito».
A 31 anni ancora non l’aveva capito?
«No. Non sapevo ancora che nella vita non puoi controllare tutto. Ero più un tipo da palla dentro o fuori. Vedevo le mete, quelle avevano valore, non il viaggio che fai per raggiungerle, non quello che ti capita mentre stai combattendo la tua sfida. Certo che voglio vincere più Slam, ma un conto è avere l’ossessione di raggiungere un orizzonte, e un altro è cercare di stare mentalmente bene, di avere equilibrio. In parole semplici: è quello che faccio con serenità oggi che mi farà giocare bene domani».
E cosa fa oggi?
«Il papà. Tutti possono essere padri, ma fare il genitore è una responsabilità diversa. Il mondo si allarga, diventa molto più di un rettangolo, ma non ci arrivi subito. Non vado più a letto tardi, anzi non arrivo neanche più alla mezzanotte. E in campo sto attento ai miei atteggiamenti, penso: e se mio figlio Stefan che ha quattro anni mi vedesse così sconvolto? Prima, credevo di avere tutti i diritti, ora rifletto sui miei doveri. L’altro giorno giocavo a palla in strada con mio figlio e qualcuno mi ha chiesto di fare una fotografia: Stefan, dubbioso, mi ha chiesto, perché quel tipo ti conosce? Be’, sai, gli ho risposto, sono spesso in tv per via del tennis. Io non l’ho detto a mio figlio che sono un campione, né desidero che lui mi riconosca come tale».
Però Stefan lo avrà capito.
«Ha capito che parto spesso. E infatti mi chiede: perché vai lontano da me? Prima questo pensiero mi era insopportabile. In campo mi mancava la famiglia, a casa soffrivo di non stare in campo. Quando giochi male i dubbi e il disagio si moltiplicano, tutto ti appare insopportabile, ora che sono in pace penso che ogni stagione porta sfide nuove. Dipende da te accettarle, cogliere l’occasione di migliorarti, oppure farti sconfiggere ancor prima di partire. Si chiama nevrosi ed è una talpa che lavora dentro».
Lei non era per riparare i viventi.
«Bel modo di dire che sono contro la chirurgia. Ma un anno fa ho dovuto arrendermi e sono finito su un tavolo operatorio, da anni il gomito destro mi faceva male, mi sono fermato sei mesi, ma non è bastato. Io però non credo nella chirurgia, sono per lasciar fare alla natura, credo che il nostro corpo abbia le risorse per rigenerarsi, se interveniamo artificialmente distruggiamo le sue possibilità. Solo che sei fai sport ad alto livello devi essere flessibile e rassegnarti all’idea che certi infortuni non si risolvono con la ginnastica o con lo stretching. Cinque settimane dopo l’operazione ero in campo. Lo sbaglio è stato quello di credere che sarei tornato subito efficiente».
Padre nostro Djokovic, farà altri miracoli?
«Credo nella trascendenza. Quando ti spingi oltre i tuoi limiti, e nello sport capita, è come se il tuo spirito uscisse fuori di te e tu fossi guidato da un pilota automatico. Mi è capitato contro Nadal nella finale dell’Australian Open 2012 che è durata quasi sei ore, a quel punto per non sentire il dolore fisico ti estranei. È come un’esperienza extracorporea, sei lì, ma non ci sei, c’è una forza più grande di te che ti porta avanti. Io ho la fede, che mi ricorda quanto sono benedetto. Ho preso atto della mia vulnerabilità, ma anche della mia forza. E non vedo altri posti dove posso evolvere se non in un campo da tennis. Quello che imparo dalla vita, io me lo gioco lì».