la Repubblica, 20 febbraio 2019
La canzone cambia tempi e si restringe
Tutto corre, si abbrevia, si restringe. E le canzoni, che del mondo sono sempre state la spugna più porosa e riflettente, si stanno di conseguenza accorciando. In America si sono accorti che facendo la media della durata dei primi 100 pezzi in classifica, c’è una riduzione di parecchi secondi rispetto al passato. Nel 2000 si oltrepassavano i 4 minuti, nel 2018 siamo a 3 minuti e mezzo, e il trend punta a ulteriori contrazioni. Di fatto uno dei pezzi di maggior successo dell’anno passato è stato I love it di Kanye West e Lil Pump e per collezionare quasi 200 milioni di streaming sono bastati appena 2 minuti e 8 secondi. Colpa certamente del rap e ancora più della trap che vanno per vie dirette, senza fronzoli, hanno ridimensionato i tempi di sviluppo, le dinamiche dell’espressione, si avvicinano e flirtano col linguaggio dei social che hanno bisogno di sintesi, di velocità senza pause. Ma c’è dell’altro. Anche senza arrivare a questi eccessi capita sempre più spesso d’imbattersi in pezzi che non arrivano ai tre minuti, come la nuova hit planetaria di Ariana Grande, 7 rings, esattamente 2 e 58. Un tempo sarebbe sembrato impossibile, quasi un’eresia.
Nel cast dell’ultimo Sanremo c’erano ben tre canzoni sotto i tre minuti: Achille Lauro ( Rolls Royce), Boomdabash ( Per un milione) e Motta ( Dov’è l’Italia). E anche questo è un record, considerando che l’allungamento delle canzoni per superare lo sbarramento dei tre minuti era stata una delle battaglie vinte dalla discografia in nome di una maggiore dignità della forma canzone. E quando Neffa si presentò anni fa con un pezzo di soli due minuti ( Le ore piccole) sembrò, come in effetti era, una provocazione. Ma se andiamo a cronometrare i tempi di un giovane gruppo rock come i Måneskin scopriamo che anche in quel caso vige la regola della sintesi: L’altra dimensione dura 2 e 06, Fear for nobody poco di più, 2 e 30. Per non parlare di Sfera Ebbasta e degli altri giovani rapper che della brevità stanno facendo uno stile, un marchio di riconoscibilità. Mai come in questi casi i numeri, anzi le durate, parlano, dicono molte cose su quello che siamo e stiamo diventando. A quanto pare il pop si adegua all’abbassamento generale della soglia dell’attenzione. Si ha fretta, e quindi si ha meno tempo per convincere, per affermare, per agganciare l’ascoltatore. I nuovi mezzi di diffusione incoraggiano la corsa, le piattaforme di streaming ci offrono sempre e comunque un ventaglio di possibilità, per ogni possibile pezzo da ascoltare ce ne sono altri accanto, derivazioni, possibili affinità, si è portati a volare dall’uno all’altro, a navigare, a muoversi nello spazio virtuale della musica e per farlo si ha bisogno di mezzi rapidi e scattanti. Per spiegare la tendenza generale, non va sottovalutato il fatto che a fare pezzi più brevi ci sia anche una convenienza economica. Facendo due calcoli è facile capire che conviene pubblicare ad esempio cinque pezzi da due minuti piuttosto che tre da 3 minuti e mezzo, viste le modalità di conteggio delle piattaforme. I centesimi di royalties scattano per il numero di contatti e non sono connessi alle durate. Ma non è solo questione di avidità. C’è di mezzo lo stile dei tempi, la scansione digitale della quotidianità, è la musica che insegue i passaggi dei nuovi fusi orari dei social media.
Di sicuro oggi i capolavori del passato farebbero fatica a emergere. In Shine on you crazy diamond dei Pink Floyd la prima parola cantata arriva dopo 8 e 40 secondi. Anche i complessivi 8 e 03 (che dal vivo diventavano molti di più) di Stairway to heaven non facevano scandalo. I fan dei Queen accettarono di buon grado i quasi sei minuti di Bohemian Rhapsody, ma i discografici erano inizialmente contrari alla scelta di lanciarlo come singolo. E suona come un paradosso oggi che il pezzo, grazie al film, ha avuto un clamoroso rilancio e campeggia nelle classifiche di streaming come una piramide accanto a una sfilza di pietruzze leggere. Anche per i più piccoli vale la stessa regola. Il tormentone mondiale Baby Shark, lanciato dalla Corea come arma di disturbo di massa, dura solo due minuti. Di più, per agganciare i consumatori più giovani, non servirebbe. D’altra parte la canzone già dal secolo scorso è sembrata il frutto perfetto di una sorta di darwiniana selezione naturale. Nessun altro prodotto esprime così bene un discorso artistico compiuto in uno spazio così breve. La canzone era e rimane un insuperabile gioiello formale, efficace, imbattibile e praticamente immortale, una sinfonia tascabile come la definì Brian Wilson parlando di un brano, Good vibrations, che nel 1966 in appena 3 e 39 secondi riusciva a sintetizzare un intero mondo espressivo. Ma la sua immortalità dipende dalla sua capacità di adattarsi ai tempi. E a quanto pare la selezione naturale continua. Per arrivare alla perfezione c’è bisogno di tagliare ancora qualche secondo.