la Repubblica, 20 febbraio 2019
La truffa dei diamanti, spiegata
Quotazioni inventate. Controlli nulli. Prezzi gonfiati. E una valanga di soldi sfilati dalle tasche di 120mila risparmiatori per finire – sotto forma di ricche commissioni – in quelli di venditori spregiudicati e delle banche. Molte delle quali, con un po’ di coda di paglia, hanno rimborsato i clienti al 100%. La stangata dei diamanti, vista con gli occhi degli investitori, ha un copione che sa di déjà-vu come una qualsiasi catena di Sant’Antonio.
L’inizio della fine, per Vasco Rossi come per le migliaia di persone coinvolte, è stato più o meno lo stesso: un colloquio in banca in cui al malcapitato (con il senno di poi) veniva proposto di comprare «un bene rifugio per eccellenza – come recitavano gli opuscoli di una delle aziende coinvolte – la cui quotazione è destinata ad aumentare a causa del calo della produzione e che diversamente dall’oro non è sottoposto ad influenze politico-valutarie». Meglio di un Bot. Con la certezza di avere «un capitale costantemente rivalutato» e guadagni esentasse. Un paracadute cui era difficile dire di “no”, l’ideale per proteggere i risparmi nell’era della crisi dei debiti sovrani e della Lehman.
Peccato che – come spesso capita in finanza quando si promettono ritorni e guadagni garantiti – non sia tutto diamante quel che luccica. Il primo problema era il prezzo cui veniva proposto. La materia prima (la pietra preziosa) incideva solo per il 20-40% sulla cifra chiesta al cliente. A questa base venivano aggiunte le commissioni per la banca (tra il 10 e il 20%), copertura assicurativa (1%), Iva, costi per la certificazione etica e gemmologica e una ricca percentuale per la rivendita garantita. Particolari di cui il cliente – in modo “colpevole e omissivo”, dice l’antitrust – era spesso lasciato all’oscuro. Scoprire l’incoerenza della somma dapagare con il valore reale dell’investimento, poi, era mission impossible: una quotazione ufficiale del diamante (contrariamente a oro e platino) non esiste. Gli esperti usano due valori ufficiosi – Rapaport e Idex – fissati una volta alla settimana per avere un’idea di massima di prezzi. Unico problema: si tratta di cifre completamente differenti da quelle che i piazzisti in Italia pubblicavano (a pagamento) come specchietto per le allodole sui quotidiani: dal 2002 al 2017 il valore dei diamanti certificato dalla Reuters è salito da 8.100 a 21.200 dollari. La stessa pietra con lo stesso grado di purezza è stata venduta ai risparmiatori di casa nostra con un prezzo in costante crescita, salito da 29mila a 48mila euro. Un rapporto interno di uno dei protagonisti di questo schema Ponzi ammetteva che i loro prodotti costavano il 137% in più del valore reale.
L’ultimo atto della stangata era la certezza della vendita: il mercato dei diamanti di investimento è poco liquido, vale solo il 2% dei commerci di queste pietre. Le società coinvolte sono riuscite a ricollocarli – facendosi pagare profumatamente per il servizio – fino a quando hanno trovato altri polli disposte a comprarle sovrapprezzo. Quando in molti – fiutata la fregatura – hanno chiesto di vendere il mercato è andato in tilt e la bolla è esplosa.
Chi ha sbagliato? Chi doveva vigilare? La Consob si è chiamata fuori perché i diamanti non sono un prodotto finanziario. Banca d’Italia perché non sono un prodotto bancario. Le banche hanno negato responsabilità, sostenendo di aver agito da intermediari di prodotti altrui.
Salvo poi venir multate dall’antitrust e decidere – per questioni di immagine – di mettere mano al portafoglio. Il cerino è rimasto in mano ai più deboli, i risparmiatori. Padroni di una pietra che non riescono più a vendere. Per loro, purtroppo, un diamante è davvero per sempre.