ItaliaOggi, 20 febbraio 2019
I giovani tedeschi ignorano Auschwitz
Le due notizie sono collegate, anche se non sembra. Può un politico mostrare le sue emozioni e piangere in parlamento? E come mai giovani tedeschi ignorano Auschwitz e la Shoah? La leader dei verdi Annalena Baerbock, 38 anni, è stata attaccata per non aver trattenuto le lacrime mentre al Bundestag, nel giorno della memoria, Saul Friedländer raccontava come fosse stato separato dai genitori morti nel campo di sterminio. I genitori dello storico israeliano, nato a Praga nel 1932, fuggirono dapprima a Parigi, quando i nazisti occuparono la Francia, lasciarono la capitale per fuggire al sud. Saul venne nascosto in un collegio cattolico, padre e madre cercarono di entrare in Svizzera, furono fermati alla frontiera e consegnati ai tedeschi. E morirono a Auschwitz. «Perché non avrei dovuto piangere? Ho pensato alle mie due figlie», si difende Frau Baerbock. Una polemica assurda, la giovane madre per alcuni avrebbe sfruttato la situazione per conquistarsi le simpatie dei suoi elettori.La giornata della memoria, che ogni 27 gennaio, ricorda la liberazione del Lager di Auschwitz compiuta dall’Armata Rossa (e non dagli americani come Benigni, per vincere più facilmente l’Oscar, mostra ne «La vita è bella»), ma secondo un sondaggio pubblicato dalla Wirtschaftswoche, il più importante settimanale economico, il 40% dei giovani tedeschi tra i 18 e i 34 anni, sanno vagamente che cosa sia Auschwitz e la Shoah, lo sterminio di sei milioni di ebrei, o lo ignorano del tutto. «Un dato allarmante», scrive il settimanale.
Come è possibile? Non è vero che in Germania si voglia dimenticare il passato. Nel centro di Berlino, il monumento alla vittime ebrei è vasto quanto un campo di calcio, a pochi metri dal Bundestag. Impossibile non vederlo e non chiedersi che cosa significhi. In certe strade le pietre d’inciampo sono decine, alla tv vengono periodicamente mandati in onda documentari storici. Forse si ricorda troppo ma non nel modo giusto, e si corre il rischio di banalizzare la storia. Lo scrittore Martin Walser fu attaccato duramente per avere anni fa denunciato che «è pericoloso evocare Hitler e il III Reich ogni volta che viene devastato un chiosco di kebab». Se ogni volta un Sadam Hussein o un Gheddaffi vengono paragonati a Hitler, quando fino a un giorno prima si trattenevano rapporti con loro, un ragazzo può pensare che forse anche il Führer non era un mostro.
È anche sbagliato, si ammonisce, fare certi paragoni superficiali: i profughi che arrivano in Europa sarebbero perseguitati come gli ebrei, oppure sarebbero uguali ai nostri emigranti, italiani, tedeschi, irlandesi. O agli stessi tedeschi (14 milioni) costretti a lasciare i territori dell’est occupati dall’Armata Rossa. Una banalizzazione o semplificazione di cui è responsabile anche un certo cinema. Si raccontano gli orrori del nazismo puntando sull’azione dimenticando il racconto, non si spiega in maniera esauriente il «perché».
Frau Merkel nel giorno della memoria ha dichiarato che «l’antisemitismo non può essere tollerato e combattuto con tutti i mezzi». Ma oggi per un ebreo a Berlino non è prudente farsi riconoscere come tale per strada. Viene aggredito dagli immigrati musulmani, e i ragazzi ebrei a scuola vengono perseguitati dai compagni turchi, che sono in maggioranza. Si è giunti al paradosso che per non venire accusati di razzismo se si criticano certi comportamenti degli immigrati, i professori chiudono gli occhi, sui giornali le notizie vengono censurate, si arriva a parlare di «mobbing religioso» per non scrivere «antisemitismo». E una giovane deputata si deve difendere se piange a sentire il racconto di un sopravissuto al nazismo.