20 febbraio 2019
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Biografia di Tiziano Ferro
Tiziano Ferro, nato a Latina il 21 febbraio 1980 (39 anni). Cantautore. Oltre 15 milioni di copie vendute nel mondo. «Io scriverei canzoni anche se facessi il geometra» • «Papà geometra, mamma odontotecnica. Lui innamorato di Beatles, Rolling Stones, Pink Floyd, Janis Joplin. Lei tutta per Riccardo Cocciante, De Gregori, Battisti, Battiato. “Non ricordo un giorno della mia vita senza musica”, racconta. “Ho consumato le cassette del Nostro caro angelo e Cervo a primavera. Un miliardo di ascolti. Ma anche del White album e The Wall”» (Giuseppe Videtti). A cinque anni, come regalo di Natale ricevette una pianola Bontempi, su cui iniziò a suonare. «Da piccolo ero veramente molto timido: sempre attaccato al mio giradischi, al mangiadischi, al walkman, disegnavo e scrivevo tantissimo». «L’avventura comincia a sette anni con lo studio della chitarra classica, poi ripudiata in favore del pianoforte che consente di comporre con più armonie». «Ho scoperto la mia voce scrivendo le prime canzoni. Anche se all´inizio le immaginavo cantate da altri: Laura Pausini, Giorgia, Zucchero, Anna Oxa. Poi ho cominciato a usare la mia voce, maleducatissima e assolutamente istintiva». «“La prima volta ho cantato in un coro gospel a Latina. Avevamo un bel repertorio, non solo classici alla Oh Happy Day, ma passavamo da Stevie Wonder a Mary J. Blige. Avevo 16 anni. Un giorno il direttore venne verso di me e mi strattonò: tu canta con gli altri, mi disse. Evidentemente emergevo troppo col volume della mia voce”. Quanto tempo ha cantato nel coro? “Fino ai vent’anni. È stata una grande scuola. A un certo punto come direttore arrivò Joy Malcolm degli Incognito, perché durante un tour della band a Latina si innamorò di un nostro tastierista e si fermò. Era una che con la voce menava forte, e mi ha insegnato ad asciugare le note”» (Marco Molendini). «Il coro gospel era rassicurante: lì ero protetto, mi nascondevo tra gli altri. Una volta il direttore, sentendomi cantare Nobody Knows the Trouble I´ve Seen, fermò le prove e mi chiese di fare un passo in avanti. "Ricantala da solo", disse. Da quel giorno divenni solista». «La prima volta che a 16 anni cantai con il coro avevo un tremolio continuo alla gamba sinistra: non lo dimenticherò mai. C’eerano cento persone in quella chiesa, ma era la prima volta che cantavo in pubblico ed ero il solista». «Ci presi gusto. "Quasi quasi me le canto io, le mie canzoni", pensai. Volevo fare della musica un mestiere, non importa in che modo, esecutore o autore, no problem. E per quattro anni ho bussato a ogni porta. Sono tanti quattro anni…». «Ricordi la tua prima esibizione in pubblico? “Fu durante una gara di karaoke in un parco giochi acquatico, nel 1996. Cantai Finalmente tu di Fiorello. Arrivai terzo. Vinsi un’autoradio”. I primi lavoretti nel mondo della musica? “Facevo volantinaggio in strada per una radio. Con i primi risparmi mi comprai un biglietto sottopalco per il concerto di Whitney Houston al Forum di Assago”» (Vittorio Zincone). «Whitney Houston nel 1999 è stata il mio primo vero concerto, da spettatore. Mi sono comprato il biglietto lavorando sei mesi in un McDonald’s. Non solo era il primo concerto, era anche la prima volta che andavo a Milano per una cosa tutta mia, e non mi sono accontentato di un posto qualunque: volevo una delle prime file. A racimolare i soldi ci ho messo, appunto, sei mesi, ma lo meritava. Lei è stata il motivo per cui ho deciso di provare a cantare» (a Piero Negri). «Tiziano è un secchione. 55/60 alla maturità scientifica, poi subito all´università. Non una facoltà da bamboccione: Ingegneria. Nel frattempo scrive canzoni. Vorrebbe cantarle, ma la risposta è sempre “no”» (Videtti). «All’epoca era un ragazzone di centouno chili che ascoltava il nuovo soul, cantava nel coro gospel della sua città e sognava di entrare nel mondo della musica. Per questo Ferro le tentava tutte, come accade quando si coltiva un grande sogno. […] Aveva cantato come corista nella tournée dei Sottotono e partecipato per due volte alle selezioni dell’Accademia della canzone di Sanremo: la prima volta lo avevano scartato, la seconda era arrivato tra i dodici finalisti, ma poi al Festival per l’Accademia andarono i Quintorigo ed Elena Cataneo. E Ferro allora scoprì che i chili di troppo erano il suo problema. Glielo disse chiaro e tondo un discografico a Sanremo: “Sei bravo, e molto: possiamo lavorare assieme, ma finché non ti metti a dieta non se ne fa niente”. E lei come la prese? “Pensai che, se quello era il motivo che mi separava dal mio obiettivo, dovevo superare l’ostacolo. […] Ero decisamente sovrappeso, e con i dolci esageravo. Così ho iniziato a controllarmi, a seguire un regime alimentare più corretto, ma per farlo ho dovuto tirar fuori tutta la mia volontà, perché non è stata solo una dieta: dopo aver perso i chili devi cambiare la tua testa. Senza palestra o altro, in due anni ho perso 31 chili. […] Ho acquistato in salute, e devo dire che i miei discografici avevano ragione: è arrivato anche il successo”» (Carlo Moretti). «Quando ritornerai è il punto da cui è partito tutto. “Con quella canzone – ricorda – arrivai alle finali dell’Accademia di Sanremo nel ’98 e incontrai Mara Maionchi e Alberto Salerno, con cui firmai il mio primo contratto”» (Andrea Laffranchi). «Quando Mara Maionchi e Alberto Salerno firmarono il mio primo contratto, nel 1998, mi misero nelle mani sapienti di Marco Falagiani, arrangiatore di altissimo livello, fiorentino, che è stato il primo a farmi lavorare come un "manovale" della musica: tutti i giorni nello studio del compianto Giancarlo Bigazzi a Settignano, una bottega in cui si faticava sempre, che ci fosse un’idea oppure no. Si faticava e si scopriva cosa vuol dire davvero costruire una canzone» (a Fulvio Paloscia). «“Fu la svolta. Io ero totalmente preso da una certa discografia degli anni Sessanta, da Buddy Miles a Ray Charles e in generale tutto il repertorio Motown. La mia attenzione era rivolta totalmente alla musica e alla magia della voce. Nessuna cura per i testi: io mi fermavo ai concetti di quei maestri, che erano in realtà piuttosto elementari e non andavano oltre il ‘dài, cara trascorriamo la notte insieme, divertiamoci e balliamo’”. Arrivano i consigli di Salerno, che racconta: “Anziché paracadutare dei versi scritti da me sulla sua musica, prima tentazione di un autore, ho costretto Ferro a tirar fuori l’energia che aveva anche nei testi”. Da questo singolare sodalizio sono saltati fuori versi come “Ti dicono ‘sii forte’, sì, ma / son bravi a parlare: / che ne sanno di che hai dentro di te?”, che fan parte di Mai nata, una canzone su una ragazza ammalata di bulimia, o “Tu sei un vero / osso duro, / asso grosso, / gas a più non / posso, presto, / e parti in quarta adesso” da L’olimpiade. La discografia come l’ha accolta? “Un coro unanime di ‘no’. Perché mi muovevo su un genere che in Italia non ha mai venduto”» (Mario Luzzatto Fegiz). «Nel 2001 il singolo Xdono e l’album Rosso relativo (con il gospel Soul-dier), inciso anche in spagnolo, spopolano in tutta Europa grazie alla sensualità e al semplice romanticismo dei pezzi, ma anche alla miscela di r&b e melodia all’italiana degli arrangiamenti di Michele Canova. Nel 2002 è premiato al Festivalbar e al Pim come artista rivelazione; ai Latin Grammy si aggiudica una nomination nel 2003 e due nel 2004, quando vince un premio con Alucinado, versione spagnola della ballata Imbranato. Nel 2003 bissa il grande successo con 111-Centoundici (con Sere nere e il jazzato Temple Bar), che porta come titolo un numero ricorrente nella sua vita, lo stesso dei chili di un passato ormai alle sue spalle. Nello stesso 2003 compone Dove il mondo racconta segreti per Michele Zarrillo, con cui duetta in una serata speciale di Sanremo 2006; nel 2004 incide con Jamelia Universal Prayer per l’album delle Olimpiadi di Atene, mentre per i Blue scrive il testo di A chi mi dice, versione italiana di Breathe Easy. […] Rinnovato il contratto con la Emi, nel 2006 pubblica Nessuno è solo, undici brani prodotti da Michele Canova» (Enrico Deregibus). Gli anni successivi hanno visto l’uscita di altri tre album di inediti (Alla mia età nel 2008, L’amore è una cosa semplice nel 2011, Il mestiere della vita nel 2016) e della sua prima raccolta (TZN – The Best of Tiziano Ferro nel 2014, arricchita di ben otto tracce inedite), che ne hanno consacrato definitivamente il successo mondiale, coronato da tournée italiane e internazionali seguite da centinaia di migliaia di spettatori, che hanno fatto registrare il «tutto esaurito» anche ai concerti tenuti negli stadi. «Il mestiere di cantante è bello, ma spesso ripetitivo. Lo stadio mi costringe a mettermi in gioco e fare una cosa che non avevo mai fatto. In passato non mi sentivo pronto. Pensavo fossero spazi aperti solo alle grandi rockband. Poi mi sono convinto e ho iniziato a spiare gli altri: ho visto Ligabue sicuro e lineare, ho visto Jovanotti altrettanto sicuro ma dinamico… Io non so fare né Liga né Lorenzo, e questo inizialmente mi ha messo in crisi. Ma la crisi, la controversia, mi portano sempre alla pace». «Per molti artisti il tour negli stadi è un punto di arrivo. Per lui no: “Ne aspetto altri. Magari meno stupefacenti, ma spero altrettanto importanti. Perché l’idea di fermarmi, di non avere un continuo processo evolutivo, di sentirmi giusto, arrivato, mi terrorizza”» (Edoardo Semmola). «Lei ha iniziato con canzoni di stampo black, poi si è spostato verso un territorio più cantautorale. Perché? "Ho fatto il percorso inverso di molti altri, che debuttano con chitarra e voce e poi, dopo anni, fanno l’album elettronico. Prendere le mosse dal r’n’b, allora fuori mercato per l’Italia, mi ha dato molta libertà, oltre all’opportunità di essere il seme di una scena di artisti simili a me: in quel momento ho deciso di cambiare"» (Paloscia). L’ultimo album, Il mestiere della vita, «non è un album qualsiasi, ma una bella confessione personale, un racconto in prima persona trasformato in canzoni. Canzoni che, come accade solo alla grande musica popolare, una volta registrate non sono più "personali", ma diventano "collettive", perché raccontano una parte di noi, dei nostri dolori, delle nostre gioie, delle nostre vite. Che Tiziano Ferro mescola con la sua per farle diventare un album ricco e intenso. "Mi attribuisco il ruolo di mestierante della vita", dice lui. "Alla lunga, negli anni, mi sono reso conto che l’unica responsabilità che mi sento addosso è quella di riportare nero su bianco la mia visione della vita, dell’esistenza. Mi piace farlo sulla mia pelle: sento che a questo sono chiamato"» (Ernesto Assante). «Il mestiere della vita è un album maturo, di rottura, che segna un nuovo capitolo. Su cui, al di là del metodo compositivo vicino a quello di venti anni fa, pesa il fattore anagrafe e quello della grande esperienza accumulata in questi anni. Registrato tra Los Angeles e Milano con la produzione di Michele Canova, si muove principalmente tra soul, r&b e hip hop. L’elettronica e la programmazione ritmica sono le protagoniste. A suoni spigolosi e asciutti corrispondono spesso testi forti, aggressivi, perché “Nell’album non ho avuto paura di esporre la mia ricerca personale e di mettere in discussione tutto”, ha sottolineato Tiziano Ferro» (Valentina Tosoni). L’8 gennaio 2019 Ferro ha annunciato la pubblicazione del suo nuovo album di inediti per il 22 novembre successivo • «Oggi c’è la fila alla sua porta, ha scritto praticamente per tutti i grandi nomi della pop music nazionale. “Scherza, scherza, sono diventati davvero un bel po’. Mi piace: difficilmente dico di no. Io sono uno che scrive ‘a fiume’, pur sapendo che poi butterò l’80 per cento. Ma magari arriva Fiorella Mannoia, e quel dato pezzo, coi dovuti ritocchi, funziona per lei”» (Molendini) • Due libri autobiografici, Trent’anni e una chiacchierata con papà (Kowalski 2010) e L’amore è una cosa semplice (Kowalski 2012): nel primo racconta la faticosa accettazione della propria omosessualità, rivelata (dopo anni di illazioni) in anteprima alla stampa nell’ottobre 2010, nel secondo le immediate conseguenze dell’annuncio. «"Certi percorsi vanno fatti fino in fondo: detto adesso sembra quasi ovvio, ma quando ho riletto i miei diari […] sono rimasto sconvolto. […] Il problema è che mi ero totalmente isolato per non far vedere un tormento che era evidente. Questo è stato il mio macigno. Da solo è tutto peggio. Il vero passo avanti, anche grazie alla decisione di andare in analisi, è stato quello di eliminare questa forma di autocontrollo: pensavo che agli altri non interessassero i miei problemi. Quindi l’autoisolamento, forzatissimo". Perché ha voluto mettere suo padre fin nel titolo? "Un giorno ero andato a dirgli che volevo smettere di fare questo mestiere, che pure amavo. La decisione era frutto di questa paranoia elaborata in anni di meditazioni solitarie. Ero andato da lui perché mi sembrava onesto farlo, e papà mi ha spiegato che era una stupidaggine: se i motivi erano quelli, tipo l’omosessualità, facevo un grande errore. Il problema era mio, ero io che lo vivevo come tale, non certo chi mi amava. Lì per lì ho pensato: ok, dice così perché è mio padre. E invece anche gli altri, gli amici, mi hanno detto le stesse cose. In fondo, devo dare la colpa solo a me stesso. […] Non ho vissuto in un ambiente che nega l’omosessualità: ho fatto tutto da solo, il problema sono sempre stato io"» (Gino Castaldo). «“Appena fatto coming out mi sono fidanzato, e sono rimasto in coppia quattro anni. Il giorno in cui è finita, mi sono seduto al tavolo e in mezz’ora ho scritto “Solo” è solo una parola, che è anche la canzone che amo di più di tutto l’album [Il mestiere della vita – ndr]. Non succede mai che abbia un brano preferito, ma questa volta sì. Nel mio primo lungo periodo da solo ho avuto un’ansia tremenda: dovevo ritornare dentro una coppia. […] Ossessivamente. Quello mi fa ridere? Perfetto! Quell’altro ama la musica? È lui! E poi nessuno durava più di un mese. Allora mi sono detto: non è che forse devi stare un po’ da solo? E così ho fatto, e sono stato molto bene”» (Silvia Nucini) • Ha dichiarato di desiderare un figlio. «“Il mio sogno sarebbe avere una persona accanto e prendere questa decisione in due. Ma, siccome comincio a essere l’unico del gruppo a non avere un figlio, mi sono ripromesso che, se entro i 40 anni questa persona non la trovo, decido io. A quaranta, faccio un figlio: è questa l’ultima cosa importante che ho scritto nei miei diari. Ho paura che se aspetto troppo non me lo godo più io, e nemmeno i miei genitori”. Come pensa di procedere? “Banalmente ci sono un paio di possibilità: o trovo un’amica consenziente, che anche lei desidera un figlio, oppure seguo l’esempio di amici e colleghi e vado all’estero, in America”. […] All’adozione ha mai pensato? “No, per un misto di egoismo e romanticismo. Mi commuove l’idea di poter vedere i miei tratti somatici in un figlio. A volte, penso già anche ai nomi”» (Enrica Brocardo) • «Non credo nelle star educatrici e nelle canzoni politicizzate. E non salirei mai su un palco per catechizzare le folle con un comizio. Ho rivelato la mia omosessualità per fare un favore a me stesso. E dicendo che vorrei stare con un uomo tutta la vita e avere un figlio credo di fare molto. Quando parlo di un amore risolto e felice do già un segnale molto forte, il più difficile da accettare per chi non vive bene la propria omosessualità. C’è un esercito silente che accoglie più volentieri un messaggio così piuttosto che uno slogan ruvido contro gli omofobi» • «Sono cresciuto in una famiglia cattolica e mi considero un praticante, anche se a modo mio». «Quello che non riesco a fare, lo consegno a Dio. Mi capita spesso di svegliarmi la mattina e di chiedergli di guidare le mie scelte». «Prego ogni mattina e ogni sera. Soprattutto per le persone per cui provo risentimento. Perché possano avere dalla vita tutto ciò che ho avuto io» (ad Alex Adami) • «Mi posiziono in modo diverso a ogni elezione. Mi è capitato di votare a destra e a sinistra. Voto un po’ di pancia. Non voto chi usa toni troppo violenti o incivili» • Grande passione per il rugby. «Ho radici venete, e quando posso corro a vedere i miei amici del Rovigo. […] Non è solo uno sport, ma una filosofia di vita. Vinci o perdi, alla fine abbracci l’avversario perché la sfida è stata dura e leale. E poi c’è quella regola meravigliosa del passaggio indietro… Mi ha fatto sempre riflettere: per vincere non serve spingere avanti a tutti i costi, ma ogni tanto devi fermarti, tornare indietro, cercare collaborazione, per poi ripartire»» (a Federico Pistone) • «La sua vita ha avuto molti altrove: Messico, Inghilterra, ora la California. “Non ho nulla che mi leghi stabilmente a un posto. In Messico mi sono trasferito a 23 anni perché volevo studiare. Avevo lasciato l’università per fare questo mestiere e, pentito, avevo deciso di iscrivermi all’università linguistica. Ho passato l’esame, che era molto tosto, e ho seguito il corso per tre anni. Poi è esploso il successo in America Latina”. Così ha trovato rifugio in Inghilterra. “Il Paese dei Beatles e degli Stones e degli Oasis, gli idoli della mia adolescenza. Ecco perché sono andato a Manchester. Londra, città troppo piegata dal turismo, non ha nulla a che vedere con quello che raccontano i fratelli Gallagher. […] Los Angeles è un luogo che non esiste: i turisti quando arrivano qua non sanno nemmeno dove andare. È un posto dove puoi decidere il tuo modo di vivere”. Insomma, l’ha scelta perché ci si può nascondere? “Cerco la normalità. Ho bisogno di vedere i negozi, gli amici, andare in palestra, correre. In Italia tutti vogliono la foto da mettere sui social”» (Molendini) • «Vivo in forte collisione con l’atteggiamento del mondo della comunicazione, fatto di social network, foto, video, sempre condivisi. È una cosa che alla fine mi disgusta e che trovo deprimente. Per me, sia chiaro, non per gli altri. Ma è un modo che appaga estroversi ed esuberanti. Gli schivi e introversi come me fanno fatica a farsi largo». «I social network andrebbero messi fuori legge: abbrutiscono le persone. Molti vivono su Twitter o Facebook come se quella fosse la vita reale, litigano per piccolezze, sfogano frustrazioni profonde, anche patologiche, svelano dolori, lutti, la necessità di un commiato. Ed è insopportabile l’esibizione di tutte queste fotografie di bambini, queste invasioni dentro esistenze che non possono difendersi. E poi, i social sono anche il rifugio di chi non ha niente da fare. Perché chi ha da fare fa. Io appartengo a una generazione cresciuta con l’amore per gli artisti del mistero, penso a Freddie Mercury o David Bowie, e davvero non immagino un selfie di Mercury in vestaglia la sera, prima di andare a dormire» • «Prima di un tour sono talmente concentrato che divento un’altra persona. Un mese prima inizio a mangiare bene, via il bere e i fritti, intensifico l’attività fisica, vado a letto presto. La vera fatica è rinunciare al caffè. Dopo un concerto non riesci a dormire per l’adrenalina, non riesci a scrivere perché la situazione non ispira, è troppo tardi per telefonare agli amici perché dormono tutti. Restano le serie tv che mi porto dietro». «Li preparo mettendomi sempre dalla parte degli spettatori. Mi chiedo: io cosa mi aspetterei? Per questo non cedo alla tentazione delle variazioni. […] Se finisci a riempire gli stadi, non devi dimenticarti del perché. Voglio essere al servizio delle mie canzoni: senza, non sono niente. […] Gli spettatori devo mandarli via divertiti, stanchi, “spesi” nelle energie, perché ho un appuntamento con loro ogni due anni». «Guardi la gente negli occhi, la senti e capisci che magari un cd si può piratare, un live no. La scena è un valore, dono reciproco, e bisogna darsi senza paura». «Sono una persona fragile, insicura, molto più a suo agio davanti a un mare di folla che di fronte a cinque persone» • «Il mio talento è puro istinto e artigianato, natura e mestiere. Mi hanno insegnato a fare, buttare e rifare. I colleghi più giovani a volte mi sembrano frettolosi. Non è tutta colpa loro: glielo chiede il mercato. Io, però, dal ’98 al 2001 sono stato in bottega a prendere schiaffi finché non arrivava la canzone giusta». «Non ho mai fatto un disco uguale all’altro, non ho mai scelto un genere musicale». «La tristezza a ogni costo è solo noiosa: mi terrorizza diventare così. Da qualche tempo le mie canzoni sono più luminose, meno crepuscolari: i figli del dramma mi hanno un po’ stancato» • «Molti pensano che la mia Rosso relativo sia una canzone dove celebro il sesso, mentre il testo racconta della mia antica fame notturna. “Forza, amati per questa sera, ché domani torni in te” è un grido di speranza che qualsiasi bulimico dovrebbe scriversi sul palmo di una mano. E rileggerlo quando sente, forte, la voglia di aprire il frigorifero» (a Luca Dondoni). «È più difficile esporre i propri sentimenti che fare canzoni di protesta» • «L’amore è e resta il motore della sua arte. "È una sorta di condanna: non so se ne sono addirittura ossessionato. Ma mi sento come chiamato dalla vita a cantare l’amore, non riesco a fare altro. Lucio Dalla una volta disse a Samuele Bersani: "Per scrivere una canzone vera, non puoi rifiutare il dolore e abbellirla a tutti i costi con il linguaggio poetico: il dolore, lo devi capitalizzare". È quello che ho fatto io, senza nemmeno rendermene conto"» (Assante) • «Ha doti d’autore, ma anche vocali: grande timbro, senza però freddi tecnicismi. "Non credo di avere chissà quale grande voce. Sono un "baritenore", non arrivo al do. Non sono Mina, ma neanche il pulcino Pio. Per me l’obiettivo è sempre stata la riuscita del messaggio: metto prima il pezzo delle corde vocali, visto che le mie hanno pure un piccolo difetto, che però determina proprio questo mio timbro"» (Paloscia). «Quarto italiano da esportazione, dopo Bocelli, Pausini e Ramazzotti» (Marinella Venegoni) • «Il pop in Italia è maltrattato dalla critica? “C’è un equivoco: non si dice abbastanza che il pop è la cosa più difficile da fare. […] Nel pop non hai scorciatoie. Non ti puoi nascondere dietro a suoni controversi o a frasi incomprensibili. Non puoi creare un successo pop a tavolino. […] Ci può essere qualche eccezione, ma nel pop funzioni e duri se sei sintetico e trasparente: perché parli a tanta gente. Se non sei sincero, non funziona”» (Zincone) • «Vivo quest’epoca di supremazia della musica dal vivo su quella registrata molto a fatica. Amo John Lennon e Lucio Battisti, che hanno fatto pochi concerti e hanno invece passato molte ore chiusi in uno studio: mi piace la vita raccontata nelle canzoni. Vorrei essere un artista quasi invisibile, ma oggi non si può. Dal vivo ti devi reinventare, devi tirar fuori una versione di te che è quasi all’opposto di quella del disco». «"Questo è un mestiere che, per quanto tu lo voglia fare da vergine, alla fine ti intrappola: ti porta sempre a parlare di te, a scegliere la versione di Tiziano da qui a poco dopo. I social media? Sono il crack del narcisismo. Mi fa paura vivere per l’istante. Io vivo per l’infinito: spero di lasciare un messaggio che rimanga anche quando non ci sarò più". […] Cosa resterà di lei? "Non solo musica. Mi piacerebbe scrivere una sceneggiatura simile a quella di Via da Las Vegas con Nicolas Cage alcolizzato. Ho amato La pazza gioia, Perfetti sconosciuti, Lo chiamavano Jeeg Robot, Julieta di Almodóvar. Sono aperto al cinema. Una volta in aereo ho incontrato Nanni Moretti. Mi sono buttato con l’ammirazione di un fan, e lui mi ha liquidato così: ‘Ma, a Latina, come sta messa la squadra di pallanuoto?’. Fine"» (Filippo Brunamonti) • «La tua canzone preferita? “Aver paura di innamorarsi troppo di Lucio Battisti”» (Zincone) • «La sincerità per me è l’unica opzione possibile. Non dico bugie: al massimo, ometto. Se devo dare un parere, mi accordo alla sensibilità di chi deve ascoltare. Ma non mi piace dire cazzate». «A vent’anni mi facevo schifo, adesso mi godo le cose e non cambierei nulla per tornare indietro». «Senza musica sarei diventato misantropo. Ho sempre fatto grande fatica a comunicare e stare in mezzo alla gente, unirmi agli altri, sentirmi parte di qualcosa. La mia vita ora è l’opposto di quello che era quando ero adolescente. […] La musica mi ha salvato e mi ha cambiato la vita».