Corriere della Sera, 19 febbraio 2019
Malaparte l’africano
«Tra poco la diligenza per l’Africa lascerà il porto, colma sino al soffitto di bauli, valigie, fagotti, casse, ceste, mamme, bambini, coloni operai. I cavalli scalpitano impazienti, battono gli zoccoli, sull’azzurro selciato marino, nitriscono nell’aria acerba». Selciato marino? Siamo all’inizio del 1939 e in realtà Curzio Malaparte descrive, come se fosse quella di una diligenza, la partenza di un’imbarcazione, il «Palestina», alla volta dell’Etiopia. «S’ode persino uno schioccar di frusta, ed è forse lo schiocco del vento nelle sartie e nei tendoni. È proprio una diligenza, questo piccolo piroscafo che tra poco partirà alla volta di Massaua e di Assab: ed è come se dicessi alla volta di Abbiategrasso, di Cerignola, di Bagnacavallo. Un’antica diligenza di paese, di quelle che percorrono le strade maestre fra un borgo e l’altro, fra un mercato e l’altro, e ogni tanto scompaiono nell’insolente nuvola di polvere e di fumo che gli autotreni si lasciano dietro le spalle».
È questo l’inizio del primo di quattordici reportage di Malaparte dalle terre d’Africa conquistate da Mussolini (anche se ancora non del tutto) quattro anni prima e che saranno ripubblicati adesso – dopo una prima introvabile edizione Vallecchi di alcuni anni fa – in un prezioso libretto, Viaggio in Etiopia, dall’editore Passigli.
Kurt Erich Suckert, in arte Curzio Malaparte, aveva all’epoca 41 anni. Era stato interventista e volontario nella Prima guerra mondiale (arruolandosi già nel 1914, un anno prima che l’Italia entrasse in guerra, nella Legione garibaldina che aveva combattuto inquadrata nella Legione straniera francese), aveva aderito al fascismo già nel 1920, per poi prendere parte nel 1922 alla marcia su Roma. Era rimasto un fascista intransigente anche ai tempi dell’uccisione di Giacomo Matteotti (1924) e dopo il discorso mussoliniano del 3 gennaio 1925, con il quale era stata annunciata la sospensione delle libertà democratiche. Il suo nome compariva tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali fascisti di Giovanni Gentile. Piero Gobetti, che, pur da posizioni politiche opposte alle sue, lo stimava, volle pubblicargli un saggio con la propria prefazione e lo definì «la miglior penna del regime».
Fu condirettore della «Fiera Letteraria» e, dal 1929 al gennaio del 1931, direttore de «La Stampa». Amico di Massimo Bontempelli, ma anche di Leo Longanesi e Mino Maccari, si atteggiò a «fascista eretico» e prese di mira Italo Balbo, che pure era stato suo amico. La pubblicazione a Parigi, nel 1931, di Tecnica del colpo di Stato lo fece apparire – anche per alcune maldicenze messe in circolazione, contro di lui, da Balbo – come un inaffidabile: nel 1933 fu espulso dal Partito nazionale fascista e mandato al confino a Lipari. Per sette mesi, ai quali è stato dedicato l’affascinante Curzio Malaparte alle isole Eolie di Giuseppe La Greca pubblicato dal Centro studi eoliano. In seguito lasciò le Eolie, ma non il confino che sarebbe durato ancora qualche anno. In Versilia, però.
Giordano Bruno Guerri in L’arcitaliano. Vita di Curzio Malaparte (Bompiani) ha dato grande risalto allo screzio (in realtà, qualcosa di più) tra Malaparte e Balbo. Quest’ultimo fu una personalità del regime tutt’altro che banale. Il «Corriere Padano», giornale ispirato da Balbo e diretto da Nello Quilici, diede più volte prova di «originalità e non conformismo» come ha fatto notare Claudio G. Segrè in Italo Balbo edito dal Mulino. Vantava, il «Corriere Padano», collaboratori del calibro di Giulio Colamarino, liberale e ammiratore di Gobetti, Pio Gardenghi e Massimo Fovel, economista radicale socialista ai cui scritti si interessò Gramsci. Poi, per la pagina culturale, Elio Vittorini, Giuseppe Ungaretti, Salvatore Quasimodo, Mario Soldati, Luchino Visconti, Giorgio Bassani, Michelangelo Antonioni. Fu un giornale fuori dal coro.
Ma fuori dal coro fu anche Malaparte che, forse per compiacere Mussolini, dedicò a Balbo un libello satirico, Vita di Pizzo di Ferro, davvero assai pungente. Balbo parlò male della pubblicazione francese di Malaparte e Malaparte replicò in una lettera a Quilici dai toni aspri: «Lo spirito rivoluzionario di Balbo è andato a farsi benedire; Italo è ingrassato e non solo fisicamente; sarebbe un buon ministro di Luigi Filippo; e non può naturalmente soffrire coloro che mostrano di possedere ancora vivo lo spiritaccio dei tempi passati e futuri». Poi, dopo una replica accomodante di Quilici, Malaparte scrisse una seconda lettera ancora più sferzante nei confronti di Balbo. Calcolava che tale lettera non sarebbe mai giunta sul tavolo di Mussolini e che, se mai qualcuno la avesse sottoposta all’attenzione del Duce, questi non se ne sarebbe dispiaciuto, dal momento che gli risultava che su Italo Balbo la pensasse proprio come lui. E invece quando lo stesso Balbo ne parlò con il capo del fascismo, dicendogli che qualcuno aveva indicato proprio lui, il Duce, come l’ispiratore degli atteggiamenti irriverenti di Malaparte, Mussolini fu messo in condizione di dover scegliere. E scelse Balbo. Secondo Giuseppe Pardini (in Curzio Malaparte. Biografia politica, edito da Luni) anche per «ridimensionare» lo scrittore toscano, «la cui posizione avrebbe potuto rivelarsi fastidiosa per il regime». Fu così che Malaparte venne espulso dal Pnf (ciò che dopo la guerra gli sarebbe valsa la patente di antifascista) e mandato, come si è detto, al confino.
Ma l’amicizia con Giuseppe Bottai e, soprattutto con il genero di Mussolini, Galeazzo Ciano, gli consentì, dopo qualche anno, di dar vita alla rivista «Prospettive» e di tornare a scrivere, a patto che almeno in una fase iniziale i suoi pezzi fossero firmati con uno pseudonimo. In seguito ottenne anche l’autorizzazione a firmarli e gli articoli africani per il «Corriere della Sera» segnano appunto questo ritorno. Sono perciò importantissimi perché tra le righe si può leggere in che modo Malaparte cercò di riguadagnare l’amicizia di Mussolini. E di farlo senza perdere la faccia. Di chi fu l’iniziativa?
Secondo Franco Vegliani, nel libro Malaparte (Edizioni Daria Guarnati), quegli articoli glieli commissionò direttamente un suo grande estimatore: Aldo Borelli, direttore del «Corriere» dal 1929 al 1943, che nel 1935 era partito volontario per la guerra d’Etiopia. L’intenzione sarebbe stata quella di risvegliare in lui l’antico amore per il fascismo. Secondo Vegliani, Borelli «disse a Mussolini che c’era un solo modo perché Malaparte si potesse completamente redimere, rendendosi conto nello stesso tempo della straordinaria potenza del fascismo, dei miracoli di organizzazione che erano stati compiuti: bisognava fargli visitare l’Impero, lasciandolo libero di scrivere le sue impressioni». Mussolini avrebbe risposto con scetticismo: «Quello lì è capace di mettersi a capo di qualche banda ribelle e di voler conquistare l’Italia». Tale versione dei fatti è stata confermata, nel dopoguerra, dallo stesso Malaparte.
In realtà fu probabilmente l’intercessione di qualche fascista di primo piano, quasi sicuramente lo stesso Ciano, a convincere Borelli ad accoglierlo nella famiglia del «Corriere». A patto che fosse lo stesso Malaparte a candidarsi. Così, racconta Enzo R. Laforgia, nell’esauriente prefazione al libro edito adesso da Passigli, il 12 novembre del 1938 Malaparte comunicò a Borelli di aver pianificato «un gran giro per l’Etiopia» per il quale aveva già ottenuto i permessi necessari da parte del ministero per l’Africa italiana e del ministero della Cultura popolare. Scopo del viaggio sarebbe stato «illustrare il nuovo criterio stabilito per l’emigrazione bianca in Etiopia, la creazione di un “impero bianco” in un Paese nero».
Il servizio annunciato, osserva Laforgia, «non presentava certo caratteri di originalità; si sarebbe trattato dell’ennesima celebrazione degli straordinari effetti del colonialismo fascista, pur confezionata con la pregevole scrittura di un autore come Malaparte». Fino a quel momento, scrive ancora il prefatore, «senza passaporto, espulso dal partito, caduto in disgrazia presso i massimi vertici del fascismo», Malaparte aveva dovuto «riformulare la propria attività intellettuale, cercando di tenersi a debita distanza dall’attualità politica». Adesso gli si presentava una grande occasione per riscattarsi.
Alla fine del 1938, lo scrittore si presentò a Borelli, che pure come si è detto non gli era ostile, con la consueta baldanza. Borelli mise le mani, avanti avvertendolo che aveva commissionato un servizio analogo, con tanto di viaggio in Africa, a Guelfo Civinini. Malaparte replicò che la sua sarebbe stata «letteratura», disse che era pronto a partire ai primi di dicembre e a tornare alla fine di gennaio. Riuscì anche a strappare un compenso per l’epoca davvero straordinario: venticinquemila lire per quindici articoli. Si pensi, ricorda Laforgia, che tra il 1930 e il 1935 il «Corriere» pagava per un articolo dalle 100 alle 150 lire i giornalisti giovani, tra le 300 e le 400 i più anziani e dalle 500 alle 1.000 lire gli «illustri». Poi, una volta ottenuto questo contratto, Malaparte propose a Mondadori un libro che avrebbe raccolto i reportage, per il quale aveva già studiato un titolo: L’Africa non è ner a. «Non sarà il libro di un giornalista», scriveva al suo futuro editore, «(i giornalisti non sanno scrivere e il pubblico non li legge più volentieri) ma di uno scrittore; sarà il primo libro sull’Etiopia di uno scrittore».
La partenza sul piroscafo-diligenza di cui si è detto all’inizio, era fissata per il 20 dicembre 1938 ma a metà gennaio del 1939 Borelli si lamentò con i suoi collaboratori di non avere notizie di Malaparte. Questi gli fece sapere che si era ammalato, che si era curato durante le vacanze di Natale e che sarebbe partito da Napoli il 20 gennaio. Cosa che effettivamente fece per approdare a Massaua dopo nove giorni di navigazione. Di qui, da Massaua dove era appena arrivato, Malaparte scrisse la prima (e unica) lettera a Borelli per dirgli che l’articolo iniziale era quasi pronto e che con una certa regolarità gli avrebbe mandato gli altri quattordici già pianificati. Poi sparì
In aprile Borelli, preoccupato, chiese al ministero per l’Africa italiana di informarsi su che fine avesse fatto il suo inviato. Gli risposero, dopo qualche giorno, che era su una nave che stava tornando in Italia. Sbarcò a Napoli tra il 16 e il 17 aprile del 1939 e due giorni dopo scrisse una lettera al direttore del «Corriere» in cui raccontava di aver seguito numerose imprese militari e di aver «già scritto molti articoli», che presto gli avrebbe spedito dopo aver da lui ottenuto un aiuto per sdoganare una cassa di tre quintali e mezzo di oggetti che aveva portato con sé per esporli nel 1942 al ventennale della marcia su Roma. Il primo articolo giunse in via Solferino il 2 maggio. Gli altri di seguito e vennero pubblicati ad intervallo regolare fino al gennaio del 1940.
Dalla lettura si evinceva che il fascismo – secondo Malaparte, in sintonia con la propaganda del regime – «aveva abbandonato il modello colonialista-ottocentesco finalizzato al mero sfruttamento dei territori conquistati ed era al contrario riuscito ad imprimere una decisiva accelerazione alla storia di quei luoghi, rimodellando paesaggi e culture, traghettandoli poi verso un presente moderno e “civile”». «Il linguaggio con cui mi vien fatto naturalmente di parlare dell’Eritrea», scriveva Malaparte, «è quello stesso che adopererei visitando la Grecia o l’America del Nord». Mussolini si compiacque di quella lettura, che fece dimenticare le antiche dispute tra lui e Balbo. Ormai Malaparte era definitivamente riabilitato e, a testimonianza di ciò, gli venne assegnata una croce di guerra per aver partecipato «undici giorni alle fatiche d’un battaglione coloniale in marcia, suscitando l’ammirazione degli ufficiali e coloniali tutti per lo spirito con cui superava disagi e fatiche e per lo sprezzo del pericolo, sereno coraggio di razza, dimostrati durante uno scontro con i briganti». Era il 4 giugno del 1939. Purtroppo per Malaparte di lì a tre mesi, mentre ancora uscivano sul «Corriere» i suoi reportage, sarebbe esplosa la Seconda guerra mondiale che avrebbe oscurato le fatiche di quei battaglioni coloniali e con esse l’ultima opera di regime dello scrittore toscano.