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 2019  febbraio 19 Martedì calendario

L’uomo che sceglie la musica per le sfilate


Mixa alto e basso, estremo e brani di tendenza con una vena di humour. Il re delle colonne sonore spiega perché la sua musica esalta la spettacolarità delle collezioni che sfilano A lla sfilata di Valentino a Tokyo lo scorso novembre ( per la pre-fall 2019), l’elemento più rischioso dell’allestimento non era visivo ma acustico: invece di una colonna sonora registrata, a far da sfondo alle modelle c’era, dal vivo, la pianista Angèle David- Guillou, accompagnata da un gruppo d’archi nipponico. Già un’esibizione live è di per sé complessa, ma qui c’era dell’altro: i musicisti non si conoscevano tra di loro se non per via telematica. «La cosa difficile è stata comunicare tramite interprete, da un capo all’altro del mondo. Comunque è andata», ha minimizzato dopo lo show Michel Gaubert, responsabile del soundtrack di questo e di molti altri show. Lui è un sound director, una figura che, in un mondo basato sulle immagini come questo, parrebbe di secondo piano. Invece non lo è affatto, e lo dimostra la fama che accompagna il cinquantottenne francese: non solo Gaubert è tra i più ricercati del settore, ma è diventato una celebrity a sé stante. Merito, certo, anche della sua notevole presenza e dello humour asciutto: ne sono la prova il suo spassoso e amato account Instagram e il memorabile sketch di tre anni fa con Petit Michel, il burattino creato a sua immagine.Tra le altre, sue sono le musiche per le sfilate di mostri sacri come Chanel, di nuovi divi come Jonathan Anderson, di creatori raffinati come Raf Simons e di eventi di massa come lo show di Moschino per H&M: Gaubert è un onnivoro musicale – sul suo computer ha musica per quasi dieci anni–, capace di mescolare sound estremo a brani di tendenza, e pure di far sorridere. Lo ha dimostrato lo scorso maggio alla sfilata Cruise di Chanel, ambientata su una nave da crociera, dove la colonna sonora era Ma quale idea di Pino D’Angiò. Di sicuro non quello che t’aspetti in certe occasioni.Fin da ragazzo ha adorato la musica: una cosa però è venerare una band, un’altra sapere già a 15 anni che quella sarà la tua strada. «Non si trattava solo delle canzoni: studiavo come certi gruppi si vestivano, come costruivano il loro stile. Era un aspetto che mi interessava tanto quanto il loro sound. Ho preso da mia madre, che aveva una passione sfrenata per le riviste di moda: sono cresciuto tra i suoi giornali, è un immaginario che ho sempre conosciuto bene». Nel frattempo il giovane Michel ascolta di tutto: il jazz, i Rolling Stones, David Bowie, Serge Gainsbourg, i Temptations, Barry White. Da lì a lavorare in un negozio di dischi d’importazione di giorno e a fare il dj di notte a Le Palace, la discoteca parigina simbolo di quell’epoca, il passo è breve. È così che conosce Karl Lagerfeld, di cui è tuttora uno dei più stretti collaboratori. «Le Palace rappresentava la libertà creativa e sessuale. L’inizio degli anni Ottanta fu incredibile, con la moda e la musica che erano finalmente alla portata di tutti, anche grazie alla televisione. Era galvanizzante, è stata una fortuna esserci». Nell’ 89 Lagerfeld gli commissiona una colonna sonora ispirata a House of the blue Danube di Malcolm McLaren. Da lì in avanti, non si ferma più.Certo è che Gaubert negli anni ha introdotto parecchie novità nel sistema: per esempio è stato il primo a usare la musica come intrattenimento mescolando “alto” e” basso”. Ma conta ancora essere originali? «Parlare di originalità oggi è diverso rispetto a 20 anni fa, tanto nella moda quanto nella musica: in entrambi i casi ormai domina la cultura del sample, dei frammenti presi da altri, rimaneggiati e trasformati. È il mondo contemporaneo a spingerci verso questo approccio: certo, funziona, ma credo stia a ciascuno di noi decidere dove fermarsi». Infatti la sua resta una visione assai personale: questo non rende difficile la sintonia con i desideri di chi lo ingaggia? «No, purché si collabori: io cerco di avere tutti gli input possibili prima di mettermi al lavoro, così da capire cosa una collezione voglia raccontare. Lì però subentra il mio punto di vista. Spesso funziona al primo colpo, altre volte bisogna aggiustare il tiro. Dopotutto vogliamo tutti la stessa cosa: che funzioni».