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 2019  febbraio 19 Martedì calendario

La scelta dello chef Matteo Metullio

SAN CASSIANO Da una parte avevo due stelle alla carriera, dall’altra una per la vita: sarà perché sono giovane, ma ho scelto l’amore». Matteo Metullio ha 30 anni ed è il più precoce cuoco italiano ad aver conquistato i vertici dell’alta cucina nazionale: due stelle Michelin, tre cappelli per la guida dell’Espresso, tre forchette per il Gambero Rosso.
A metà gennaio ha annunciato alla famiglia Wieser, proprietaria del ristorante La Siriola, nell’hotel Ciasa Salares di San Cassiano, nell’altoatesina Alta Val Badia, la decisione di abbandonare i fornelli per stare assieme al figlio Nicolò, che tre giorni fa ha compiuto un anno, e alla compagna Elena.
L’improvviso addio dell’enfant prodige ha inferto un colpo fatale ad uno dei rari templi della gastronomia sulle Alpi: lo chef non verrà sostituito e a fine marzo La Siriola, dopo trent’anni, chiuderà.
Perché, giovane e già al top, ha anteposto il figlio all’ambizione?
«Non sono un eroe. La maggioranza dei genitori, nelle mie condizioni, sceglie ciò che realmente vale di più. Lo stupore nasce perché, per una volta, la scelta più normale viene fatta da un padre non del tutto anonimo.
Quanto a me, così non potevo andare avanti».
Non si può più allevare un figlio tra le Dolomiti?
«Al contrario, la montagna, come il mare, sono luoghi ideali per vivere. Io però sono di Trieste e mia moglie di Tarquinia. In Val Badia sono solo, in famiglia è arrivato Nicolò, non potevamo più dividerci tra Alto Adige, Lazio e Friuli Venezia Giulia».
Non crede che oggi la convivenza a distanza sia un destino comune?
«Io so che per me nostalgia e solitudine, l’impossibilità di veder crescere mio figlio, non erano più sostenibili. Nella vita, come in cucina, cerco di dare un senso alle cose che faccio. Non posso lavorare quattordici ore al giorno e sette giorni su sette, sapendo che la mia compagna e mio figlio non mi vedono per mesi. Dopo sette anni alla Siriola sono stato costretto a chiedermi perché faccio il cuoco».
Cosa si è risposto?
«Che cucino per passione, ma che vivo per stare con le persone che amo. Quando l’ho detto alla famiglia Wieser, hanno capito: e abbiamo pianto insieme».
Anche loro hanno fatto una scelta radicale: condivide la decisione di non sostituirla e di chiudere uno dei grandi ristoranti italiani?
«Nessuno è insostituibile, ma conosco la durezza di mantenere ad alti livelli una cucina nascosta tra le Dolomiti. Un ristorante qui è costretto a seguire la stagionalità turistica, ad affrontare il turn over del personale, a fare i conti con i servizi difficili che condizionano la vita dei dipendenti e le visite dei clienti. Per un piccolo paese come San Cassiano, avere due ristoranti stellati è un miracolo unico e forse irripetibile. So però che qui, anche senza di me, si continuerà a mangiare bene».
È stata la sua compagna a imporle la scelta tra figlio e cucina?
«Sette anni fa ho conosciuto Elena proprio in Val Badia. Era Spa manager nell’hotel del ristorante St. Hubertus di Norbert Niederkofler, tre stelle Michelin, il mio maestro. Conosce i sacrifici del servizio, non mi ha mai condizionato. La verità è che alla fine qualcosa si è rotto e che per mantenere un equilibrio dovevo imboccare una strada nuova».
Trentenne e papà: con aprile sarà disoccupato?
«Tornerò a Trieste, la mia città, dove sono consulente del ristorante Harry’s Piccolo, all’interno del Grand Hotel Duchi d’Aosta, che pure ha conquistato la sua prima stella Michelin. Per un anno farò solo questo, non più di due ore al giorno, il resto tutto per figlio e famiglia. Poi, quando Nicolò andrà all’asilo ed Elena riprenderà il suo lavoro, tornerò a cucinare».
Pensa ad un locale suo nella città dove è nato?
«Con il 2020 vedremo. Ho fatto l’alberghiero a Falcade, cucino da quando sono adolescente, altro non so e non voglio fare. Non soffro lo stress del ristorante stellato: l’adrenalina del servizio mi piace, nel 2013 e nel 2017 la conquista delle stelle è stata una gioia. È tutto semplice: oggi devo fermarmi, domani sono pronto a riconquistare quanto sto per lasciare».
È vero che l’eccellenza, specie da giovani, esaurisce?
«Penso che sia triste rifiutarsi di accettare che un giovane oggi possa effettuare una scelta matura. Io non rifiuto la cucina, non rinnego l’arte di quella alta e ammiro i cuochi che sacrificandosi perseverano. Però è giusto ammettere che tra un piatto e un figlio il dubbio sulla priorità non è ammissibile».
Perché le piace provocare, sul menù come negli annunci?
«Pensare impone l’originalità. In cucina ho contrapposto il chilometro vero a quello zero.
Non ha senso premiare il territorio se non c’è qualità: il mio spaghetto freddo a km 4925 è nato così, alla Siriola non possiamo toglierlo dalla lista nemmeno d’inverno. Nella vita è lo stesso, vale solo la verità: se sei padre e non lo fai, fai lo chef ma non lo sei».