la Repubblica, 19 febbraio 2019
Il supercarcere che attende El Chapo
Joaquín Guzmán Loera, detto El Chapo, un giorno rimpiangerà perfino questi mesi: gli ultimi che sta passando rinchiuso nel 10 South, l’ala di massima sicurezza nel carcere federale di Lower Manhattan. Quasi umano? Per non parlare delle due prigioni messicane da cui riuscì a evadere: dove secondo le testimonianze il boss dei narcos era servito e riverito, poteva ordinare aragosta e champagne, o la compagnia di prostitute.Dopo la sua condanna nel tribunale di Brooklyn, “i federali” non rivelano dove sarà trasferito. Aspettano che il giudice emetta la sentenza definitiva il 25 giugno. Poi aspetteranno ancora: fino a quando El Chapo sarà arrivato alla sua nuova destinazione. Probabilmente l’ultima. Perché il suo avvocato difensore Jeffrey Lichtman non ha dubbi: «Finirà al supercarcere di Florence, Colorado. E da là nessuno è mai evaso. È semplicemente impossibile. La questione non esiste».
Nome intero: Supermax Adx. Praticamente in mezzo a un deserto, a due ore di strada da Denver, Colorado. Lo chiamano l’Alcatraz delle Montagne Rocciose, ma dall’isola di Alcatraz qualcuno riuscì a fuggire (sfidando correnti e squali), da lì no. Secondo la definizione attribuita dal New York Times all’ex guardiano Robert Hood che ci lavorò, il Supermax «non è stato disegnato per ospitare esseri umani; tantomeno per rieducarli». Finito di costruire ai tempi di Bill Clinton, in un’America ben più violenta e pericolosa, terrorizzata dalle figure di capi-gang chiamati Superpredator, quel carcere fu inaugurato nel 1994. Missione: ospitare “the worst of the worst”, i peggiori di tutti, e farli sparire dalla faccia della terra.
Ha 400 detenuti e uno staff di guardie molto superiore, “il rapporto guardiani-prigionieri più alto d’America”, ma il numero preciso di poliziotti è top secret come tante cose in questo penitenziario. 23 ore al giorno, i prigionieri le passano in isolamento totale, chiusi dentro celle di 3,5 metri per 2, nudo cemento ma con pareti insonorizzate. Un altro ex guardiano, Allan Kaiser, ha descritto sul Washington Post un paesaggio spettrale: «Sembra vuoto. Il silenzio è totale. Mai due prigionieri si spostano contemporaneamente». Non s’incrociano, non si vedono, non si parlano. Peccato… Ne avrebbero di cose da raccontarsi. Soprattutto quella “élite del male” che raggruppa i cosiddetti “direct commit”. Perché la popolazione carceraria del Supermax si divide in due categorie. Alcuni sono di passaggio, magari per molti anni, ma in provenienza da altri penitenziari: schiaffati lì dentro come castigo per aver commesso reati o aver tentato di evadere da prigioni “normali”. Poi ci sono i Vip del crimine: quelli che dopo processo e condanna sono stati direttamente spediti nel deserto del Colorado. I “direct commit” hanno avuto il Supermax come prima destinazione, a conferma della loro pericolosità. L’elenco disvela parecchie pagine di storia criminale e terroristica degli Stati Uniti, su più decenni.
Nel Supermax ci sono terroristi di destra e jihadisti, capi-gang e boss del narcotraffico. C’è Terry Nichols, complice nel più grave attentato della storia americana prima dell’11 settembre: la strage di Oklahoma City (1995) che fece 168 morti. Ted Kaczynski detto Unabomber, che seminò terrore dal 1978 al 1995 coi suoi pacchi-bomba. Nel gruppo dei jihadisti: uno dei registi del primo attentato al World Trade Center nel 1993; Richard Reid che tentò di farsi esplodere una carica nelle scarpe mentre era in volo nel dicembre 2001 (e grazie al quale da allora tutti ci togliamo le scarpe ai controlli negli aeroporti Usa); il ceceno Dzhokhar Tsarnaev responsabile dell’attacco alla maratona di Boston nel 2013. La lista include capi delle gang di strada a Chicago e Miami; suprematisti bianchi. Un’avvocatessa dello Human Rights Defence Center, Deborah Golden, dopo aver visitato il Supermax ha paragonato le celle a «loculi grandi come una piccola stanza da bagno, con un letto in cemento e sopra un sottile materasso di gommapiuma; una latrina; un lavandino». Una descrizione dall’interno l’ha fatta Eric Rudolph, autore dell’attentato alle Olimpiadi di Atlanta: «L’ora d’aria la passiamo in una gabbia, dove al massimo riesci a fare qualche movimento di aerobica, respirare aria fresca, non molto di più; da lì non vedi neppure un paesaggio, solo il cielo. Le funzioni religiose si possono seguire solo sul circuito di tv interna». Tutto organizzato per evitare il contatto umano.
Salvo le sette verifiche quotidiane dei guardiani, quando passano a controllare che ciascun prigioniero è al suo posto, vivo. Non servirà a molto che il Chapo sia riuscito ad accumulare un patrimonio di 14 miliardi. Nel Supermax è autorizzato a spendere solo 285 dollari al mese, esclusivamente nello spaccio interno. Il listino prezzi dice che una fetta di pizza al peperone costa 2 dollari e 40 centesimi.