il Giornale, 19 febbraio 2019
Lunga intervista a Ombretta Colli
Quanti volti, quante vite vissute in una, quante storie da ascoltare. L’incontro con Ombretta Colli è un romanzo da sfogliare pieno di momenti, personaggi e viaggi in giro per l’Italia e all’estero. Ride divertita la signora quando glielo si dice, ma non si tira indietro, sta al gioco e si prepara a rispondere a una lunga raffica di domande. Si diverte a ripescare angoli del suo passato, come quando andava a New York e si interessava al femminismo, o come quando a un certo punto decise di abbandonare il mondo dello spettacolo per darsi alla politica. Davanti a un caffè, accetta di raccontarsi, nella sua casa a Milano dove viveva con lei suo marito Giorgio Gaber, che il 25 gennaio scorso avrebbe compiuto ottant’anni. «Eravamo davvero una bella coppia, tra di noi c’era una grande complicità», dice aprendo un sorriso.
Ombretta Colli: cantante, attrice e politico, quante identità...
«Sì, ho cambiato molte cose. Anche il mio cognome, che era Comelli, l’ho cambiato perché veniva storpiato, c’è chi l’ha fatto persino diventare Cammelli».
Ha seguito le orme di qualcuno?
«Mio padre era musicista, eravamo sempre in giro per l’Italia, l’ho vista quasi tutta già in gioventù. Anche qui ogni volta cambiavo tutto, dalla scuola agli amici».
Chissà che fatica...
«In un anno magari si abitava in tre città diverse. Si arrivava a Venezia? Si doveva allestire una nuova casa, una vita da nomade. Ho abitato anche in Svizzera e quando sono tornata in Italia un mio amico mi ha regalato un disco di Giorgio Gaber, un segno del destino».
Le persone importanti prima di quell’incontro?
«Mia madre. Si chiamava Franca, non sopportava i lamentosi, era una forte e simpatica. Da lei ho preso una certa tenacia».
Ha avuto buoni punti di riferimento?
«Anche papà era un uomo positivo, in maniera diversa da mamma. Lui tendeva a sdrammatizzare. Il carattere serve per andare avanti, certo poi ci pensa pure la vita a formarlo».
A proposito di modelli, le sarebbe piaciuto fare la modella?
«Negli anni Sessanta sono arrivata seconda a Miss Italia. Ho partecipato per caso, avevo diciassette anni. Di quell’esperienza mi è rimasta l’allegria che c’era tra le partecipanti».
È iniziata così l’attrazione fatale per il palcoscenico?
«Mi piaceva la recitazione, l’ho scoperta da giovanissima. Mi piacevano le scene sentimentali dei film ambientati nel Far West. Girando nelle varie città ho scoperto che i nomi delle sale sono tutti uguali, un Duse o un Rivoli ci sono ovunque».
Poi la musica...
«In casa si cantava sempre, le canzoni di Sanremo. Era un modo per fare allegria, dopo un po’ di tempo, negli anni Cinquanta, arrivò la tv».
E per lei il cinema.
«Gli incontri nel mondo del cinema sono stati bellissimi. Penso ad alcuni registi con cui ho lavorato, come Elio Petri, Luigi Magni ed Ettore Scola, tre persone diversissime con in comune una cosa: una serietà che nella vita non ho trovato molto in giro. Era gente che non affrontava niente alla leggera e non ne approfittava mai».
Le va di raccontare qualche aneddoto?
«Scola mi faceva divertire. Io e Stefania Sandrelli ci guardavamo in faccia e scoppiavamo a ridere. Allora lui diceva ragazze state bone!. Magni aveva una fissa, Roma scritta con tre r. Petri sembrava un uomo dei primi del ’900, era la politica e l’impegno».
Insomma si è divertita...
«È stato molto bello pure nel teatro. Mi è piaciuto fare il personaggio Una donna tutta sbagliata. Poi ancora nel cinema, mi piaceva tutto, anche se mi svegliavano alle cinque del mattino per andare a Cinecittà».
E lì chi incontrava?
«Mastroianni, la Sandrelli appunto. Moravia e la Morante, Pasolini, ma lo vedevo meno. C’era anche Enzo Siciliano, marito di una mia amica. Ho incontrato Fellini, mi dava la sensazione di essere un fanciullone».
A Milano ci sono state altre frequentazioni.
«Battiato negli anni Settanta. Una mattina alle 5 suona il campanello di casa. Apro la porta e vedo questo ragazzone magrissimo che mi dice c’è Gaber?».
Pensava a sposarsi?
«Ero giovanissima, ho conosciuto Giorgio (Gaber, ndr) in maniera banalissima, nella casa discografica di un amico di mio padre. L’incontro fu per la copertina di un disco cui lui stava lavorando in vista del Festival di Sanremo».
Il primo incontro?
«Il giorno delle foto per il disco siamo andati al ristorante e lì, ho scoperto una cosa. Lui si alzava, si vestiva e usciva. Soldi e documenti non gli appartenevano, lasciava tutto a casa».
Come facevate?
«Al momento di pagare il conto cominciava a toccarsi la giacca per cercare il portafogli. Poi diceva: O me l’hanno rubato o l’ho lasciato a casa. Questa frase gliel’ho sentita dire un milione di volte».
Altri flash di quel periodo?
«A me è sempre piaciuto viaggiare, ogni tanto pensavamo a qualcosa. Un giorno Giorgio mi dice: Andiamo lontano!. Io penso subito agli Stati Uniti, invece poi lui mi spiega che avremmo avuto un futuro davanti, insieme. Insomma niente vacanza».
Con suo marito Gaber come era la quotidianità?
«Anche nelle nostre collaborazioni è stato fatto tutto in allegria. Ogni cosa era interessante. Lo vedevo che passava ore e ore sui testi che scriveva. Aveva un amico, il pittore Sandro Luporini, con cui ha scritto dei brani».
Lui poeta, ma anche critico esigente...
«Se si parla di politica, era assolutamente di sinistra, ma l’ha anche criticata. Non ha detto cavolate, ha detto cose che sono avvenute, tutte quante. I nostri nipoti riscopriranno molte cose di lui».
Se fa invece un confronto con la musica di oggi?
«La nostra generazione ha avuto un friccico che non c’è più da anni. Questo però non è colpa dei cantanti. In generale c’è un po’ di lassismo. Il cantante è qualcuno che va coltivato. Io e mio marito ogni anno andavano una settimana a Londra per informarci sulle novità. Londra era il caput mundi».
Negli anni Settanta ci sono stati momenti da brivido...
«Qualche volta momenti di angoscia, in quel periodo mio marito lavorava in teatro a Milano. Tiravano topi morti qui, a casa».
Tra di voi, entrambi di successo, c’erano rivalità, invidie?
«Assolutamente no. Quando Giorgio doveva debuttare io stavo male per lui, soffrivo fisicamente. E lui provava le stesse cose per me. Tra di noi c’era grande complicità».
Dai palcoscenici alla tv...
«Facevo della televisione divertente, ma ho sempre guardato tutto. In questi anni mi è capitato di vedere bei programmi molto tardi la sera, sono nottambula. Più volte mi sono chiesta perché certe cose non vengono messe in onda prima, non dico alle 21, ma appena dopo sì a beneficio di tutti».
Può raccontare l’esordio?
«L’esordio in tv è stato con la trasmissione Giochiamo agli anni Trenta. Mi sono divertita, ero vestita con gli abiti di quel periodo. Il programma? Andò benissimo».
Un periodo d’oro pieno di ritmo...
«Già da bambina ballavo il charleston. Mio padre diceva, se le venisse in mente di fare qualche cosa, questa è già avvantaggiata».
Cosa le è piaciuto di più fare?
«Tutto. Ogni esperienza mi ha lasciato qualcosa. La tv mi ha dato popolarità. Nel cinema ho avuto dei buoni riscontri, poi tutto il resto, la canzone. Di tutto questo sono felicissima».
Ha avuto compagni di viaggio imprevedibili, come Paolo Villaggio.
«Ho fatto una trasmissione domenicale con lui. Faceva morir dal ridere perché non aveva le più elementari regole dell’attenzione, rispetto e riservatezza. Magari prendeva in giro le persone senza pensarci su troppo, certo ci si divertiva, ma quello preso di mira...».
Insomma cose da Fracchia...
«Non lo dimenticherò mai. Con Paolo non si poteva non ridere. Una volta si va al cinema, per entrare e uscire dalla sala c’era una scala. Lui che cosa fa? Si mette a salirla stando sdraiato come un marines, arrampicandosi sui gradini con la gente che passava. Una scena pazzesca. Per fortuna poi lo hanno riconosciuto e giù tutti a ridere».
E cose da Moravia?
«Moravia era pazzo per le donne, quando ne vedeva passare una, si fermava e diceva, quanta grazia, quanta grazia, quanta grazia ti hanno dato... ma chi sei?. Gli dicevo dài Alberto, andiamo via!».
Poi c’è stato l’incontro con Rita Levi Montalcini.
«Una volta si è presentata in camerino, dopo uno spettacolo al Teatro Manzoni di Milano. Mi ha chiesto un autografo per i suoi nipoti e io l’ho chiesto a lei, per me».
Che rapporto ha con i suoi fan?
«Ci sono stati fiori, lettere, messaggi. Anche stalker purtroppo. Per esempio uno, per un anno, tutte le mattine alle 4 suonava il campanello di casa. Con noi abitava mia madre che cercava di tenerlo a bada».
Negli anni Novanta è stata folgorata dalla politica attiva. Come ha cominciato?
«Anche in questo caso per pura combinazione. Me lo ha proposto Silvio Berlusconi. Quando sono tornata a casa ne ho parlato con mio marito. Lui, che era di sinistra, mi ha detto: Se è una cosa che ti interessa falla, io di te mi fido».
Così si è buttata.
«Sì, l’ho fatta per parecchi anni, dal Senato al Parlamento europeo. Poi la Provincia di Milano con una politica molto amministrativa, facendo lavoro vero. Ho messo a posto le scuole. È un lavoro che consente di conoscere le cose dall’interno. Si potrebbe fare molto di più con un po’ di grinta. Non si può affrontare la politica come se fosse un salotto dei primi del Novecento a Parigi».
Ha conosciuto meglio anche gli italiani?
«Noi italiani siamo volubili. Prima un amore folle per qualcuno, poi tutto il contrario. Comunque sia, io sono stata sempre interessata alla cosa pubblica».
E la famiglia?
«Mia figlia Dalia da piccola era brava, non ha dato pensieri. Ogni tanto la portavo con me al lavoro e durante lo spettacolo stava vicino alla batteria e si divertiva un mondo. Oggi è una donna forte, brillante e spiritosa, realizzata nel suo lavoro».
A casa come vi divertivate?
«Facevamo della grandi nottate insieme mangiando dolci e ascoltando la radio. Dalia tornava dai suoi impegni e noi anche. E la notte era come una casa normale la mattina».
E oggi?
«La famiglia si è allargata, coi nipoti Lorenzo e Luca, hanno 20 e 22 anni, studiano. Il più grande studia in America, nel campo economico-manageriale. Il più giovane invece decide adesso che cosa vuole fare. Tutti suonano ma saggiamente progettano anche altro».
Ombretta, che cosa ha capito dalla vita?
«Intanto che va vissuta. Poi che l’allegria è un antidoto a tutto. Non bisogna perdere troppo tempo dietro a delle stupidate. Il nostro tempo diciamo che è un po’ contingentato».