il Giornale, 19 febbraio 2019
Intervista a Francesco Forte per i suoi 90 anni
«Questo quadro me l’ha regalato Giulio Einaudi, siccome era tirchio lo feci vedere ad un amico storico dell’arte per farlo autenticare, e infatti mi confermò: non è originale». Un altro quadro, un Monachesi (vero), fu un regalo di Arnaldo Forlani, una litografia invece dono di Papa Giovanni XIII. «Il Pontefice tramite i gesuiti mi chiese una consulenza economica, mi domandarono quanto volevo di compenso ma risposi che un consiglio al Papa, che è infinito, avrebbe avuto un valore infinito, quindi non potevo chiedere nulla. Quindi mi regalarono questa litografia. Aggiungendo: i cattolici di solito vogliono i soldi». Lo studio di Francesco Forte, 90 anni appena compiuti attraversando altrettanti anni di storia italiana dall’oro di Mussolini all’Eni di Mattei a ministro delle Finanze di Bettino Craxi fino al tramonto della Prima repubblica e pure della Seconda, è tappezzato di volumi rilegati, testi di economia, tomi di storia del pensiero, fotografie dei suoi maestri (Ezio Vanoni, Benvenuto Griziotti), ricordi. In questa casa affacciata sui villini liberty di Corso Francia ci abita da sessant’anni, per via di Luigi Einaudi. «Mi aveva chiamato a Torino per diventare il suo successore nella cattedra di Scienze delle finanze. Io a quell’epoca avevo appena comprato casa a Milano, un appartamento con in via Schiapparelli, preso da un fallimento, un affare. Ma Einaudi nella lettera di incarico scrisse che dovevo vivere a Torino, con la mia famiglia. Non voleva che facessi il pendolare e che mi separassi dalla famiglia. Pensi un po’ lei».
Da Luigi Einaudi a Luigi Di Maio. Come vive questo drammatico declino italiano?
«Molto male. Capisce, io ho conosciuto Einaudi, Ronald Reagan, François Mitterand, Helmut Kohl, Jacques Delor, Michel Rocard persone di una statura e spessore enormi. Cosa vuole che pensi di questi qui? Tria è un economista non esperto di finanza pubblica, che ci si addentra come in un labirinto... Conte il più ridicolo di tutti. È gente che vuole le biciclette in contromano nel codice della strada ma non vuole l’Alta velocità, basta questo per capirne il livello di imbecillità. Invece che leader abbiamo dei làder, dei ladri che rubano i soldi della collettività per finanziare misure come il reddito di cittadinanza, il cui fine è solo mantenere il loro potere. Ma lei mi chiedeva di Einaudi».
Economista, statista, liberale. Che ricordo ha di lui?
«Una persona incredibilmente umile, semplice. La prima cosa che mi disse quando arrivai a Torino fu: Non si senta in obbligo di usare il mio manuale come libro di testo. Lei ha idee diverse dalle mie e sicuramente più moderne. E poi il mio libro non mi convince. Pensi che umiltà».
Un altro grande che lei ha incontrato, appena trentenne, è stato Enrico Mattei. Come entrò all’Eni?
««Quasi per caso. Avevo pubblicato la mia tesi, mi spiace per Toninelli, sulla analisi costi-benefici delle strade, con le tasse sul petrolio come prezzo del loro uso. Mi presero anche se non ero un esperto di petrolio internazionale. Mattei mi chiese un’analisi costi-benefici sull’acquisizione di deputati».
Nel senso se conveniva comprarli?
«Se conveniva comprarli già formati oppure assumerli da formare, come l’Eni fece ad esempio con Ciriaco De Mita, lanciato come deputato Dc per assumere un ruolo politico nel Sud. L’Eni poi comprava i politici quando si doveva eleggere il presidente della Repubblica, perché la nomina del presidente Eni spetta al presidente della Repubblica. Quando mancavano voti, l’Eni era incaricato di ospitare i franchi tiratori all’Hotel Bernini di Roma, dargli vitto e alloggio. Altri venivano anche pagati, ma non me ne occupavo io. C’era un funzionario che girava con una valigetta piena di soldi e si annunciava dicendo di fargli trovare una frittata con sei uova, che voleva dire che portava sei milioni. Ma insomma, Mattei voleva sapere se conveniva pagare i franchi tiratori o allevare politici direttamente. Feci l’analisi insieme al professor Faleschini e venne fuori che conveniva pagarli, così non ci si immischiava nelle correnti politiche».
Sulla fine di Mattei che idea si è fatto?
«Un attentato, lo sapevamo tutti, ma non c’entrano le Sette sorelle americane, il motivo è il mega-accordo sul petrolio con l’Algeria che Mattei stava per chiudere, avrei dovuto fare io il ministro delle Finanze dell’Algeria. Ma i pied noir francesi, i coloni nazionalisti, non volevano interferenze di altri Paesi. Il giorno prima dell’incidente il pilota mi aveva detto di aver trovato già due volte un cacciavite negli ingranaggi del motore. L’aereo fu sabotato in Sicilia e poi cadde durante l’atterraggio. Fu così che morì Mattei».
Passiamo alla politica, come ci arrivò?
«Craxi mi volle come capolista in Lombardia, a quindici giorni dal voto. Io feci capire che non avevo mai fatto politica, che il tempo non bastava, chiesi di cercare un’alternativa. Telefonarono a Craxi. Risposta: «Merda». Cioè si fa come dico io. Così mi candidai presi un sacco di voti e divenni deputato».
Un giudizio su Craxi.
«Gli ultimi anni del suo potere sono stati segnati dal diabete che lo mandava in coma, stava malissimo, non riusciva più a mantenere l’attenzione oltre 20 minuti, dovevamo scrivergli note brevi e a caratteri cubitali. La borsa che i mascalzoni di magistrati dissero che era la borsa con le mazzette in realtà conteneva la siringa e un panino che servono per chi va in coma diabetico. Sono convinto che lui controllasse poco quello che allora succedeva nel Psi. E i ladri nel Psi c’erano. Uno mi disse un giorno: «Sai Francesco, abbiamo imparato dai comunisti». Che prendevano i finanziamenti in nero da Mosca, sotto forma di tangente del 6% sulla fornitura di gas dalla Russia. Una montagna di soldi».
Mani pulite cosa è stata?
«È nata come un’idea degli andreottiani. Volevano fare l’accordo col Pci e far fuori il Psi, i processi gli sembrarono un modo rapido per riuscirci. Una senatrice Dc un giorno mi disse Sai noi a Milano iniziamo con questo Di Pietro i processi politici. Io le risposi con una frase di mio papà, guarda che la giustizia è una dea bendata, non perché imparziale ma perché va a casaccio e i processi non si sa mai che piega prendono. Infatti».
Lei con Andreotti è stato anche collega di governo.
«Sì, lui agli Esteri io alle Politiche comunitarie. In aereo leggeva sempre un libriccino, poi capii che era il Vangelo. Mangiava pochissimo, si alzava prestissimo e al ministero bisognava attenderlo un’ora perché doveva fare le telefonate per raccomandazioni, tutti i giorni. Ricordo il suo imbarazzo perché lui non parlava le lingue. Una volta con Reagan che chiacchierava solo con me e lui davanti che non capiva una parola, ci stette male. Tra l’altro Reagan mi stava parlando di ippica, argomento che Andreotti conosceva bene giocando alle corse. Non è stato un vero grande statista, al massimo un abile mediatore».
Ma è vero che suo padre scoprì l’oro di Dongo?
«Indagò, come procuratore di Sondrio, sull’uccisione di Mussolini e della Petacci e sulla sparizione di gioielli e di rotoli di banconote. Pensava che il responsabile potesse essere Luigi Longo, futuro segretario del Pci. E secondo il codice militare si sarebbe dovuta applicare la pena di morte. Un peso enorme su mio padre. Può immaginare che sollievo quando il processo fu trasferito a Milano».