Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  febbraio 19 Martedì calendario

Intervista a Matt Dillon

«La sera, dopo le riprese, tornavo a casa e piangevo. Ero turbatissimo dalle azioni atroci che avevo dovuto compiere nei panni di Jack, il mio personaggio». Pausa. «Più di una volta ho pensato di non farcela. Ma la sceneggiatura era così ben scritta, e il regista un tale genio, che non ho potuto tirami indietro. E ora sono orgoglioso di aver girato questo film perfettamente riuscito, diverso da tutti. È stata per me un’esperienza magnifica». 
Matt Dillon, di passaggio a Roma, manda giù alcuni bicchieri d’acqua e un caffè mentre racconta la sua discesa all’inferno: a 55 anni (compiuti proprio ieri), una carriera all’insegna di maestri come Coppola, Minghella, Haggis, gli è toccato interpretare un serial killer psicopatico, vagamente ispirato a Jack lo Squartatore, in La casa di Jack, il nuovo horror dell’incorreggibile regista danese Lars Von Trier che a maggio scorso aveva messo a ferro e fuoco il Festival di Cannes. Gli spettatori erano fuggiti in massa dalla sala, incapaci di tollerare le efferatezze del protagonista che si accanisce con tutti i mezzi, compreso un cric, contro donne di ogni età (le vittime sono interpretate da Uma Thurman, Siobhan Fallon Hogan, Sofie Gråbøl e Riley Keough) in un’orgia di sangue, violenza e dialoghi filosofici con una specie di guida spirtuale impersonata da Bruno Ganz, il grande attore svizzero appena scomparso (è il suo ultimo ruolo). Arriva perfino, il mostro, a costruire una casa con i cadaveri delle sventurate. E, in tempi di #MeToo, le polemiche si sono sprecate. Che succederà in Italia? Per ora La casa di Jack, in sala il 28 febbraio con Videa, è al vaglio della censura che rischia di vietarlo ai minorenni. Matt, faccia aperta e modi simpatici, difende strenuamente il film. Un’ulteriore fatica, dopo lo choc delle riprese. 
Dica la verità, non ha avuto esitazioni nell’accettare un ruolo così atroce e scorretto?
«Ho avuto moltissimi dubbi. Mi sentivo a disagio anche perché temevo che, rivedendomi sullo schermo, non mi sarei accettato. Avevo perfino detto agli amici: non posso farcela, rinuncio».
E cosa le ha fatto cambiare idea?
«La voglia di lavorare con Von Trier, che ho sempre ammirato. E la certezza che un attore non deve giudicare i suoi personaggi. Ho chiesto consiglio proprio a Ganz, che oggi rimpiango dal più profondo del cuore, perché non a caso aveva interpretato Hitler, il mostro per eccellenza».
Cosa le ha detto?
«Mi ha spiegato che un attore non deve mai confondersi con il ruolo che interpreta, aggiungendo che la sceneggiatura di Von Trier era la cosa più interessante che avesse mai letto. Così ho accettato il rischio. Amo le sfide».
È vero, come avrebbe rivelato ai media americani, che per girare il film ha dovuto imparare diversi modi di uccidere? «Assolutamente no, non l’ho mai dichiarato e non è vero». 
Ma il regista come ha giustificato l’intenzione di portare sullo schermo un simile mostro?
«Mi ha detto: di tutti i personaggi che ho creato Jack è quello che mi somiglia di più. Unica differenza, io non uccido. E mi ha assicurato che è abituato a prendersi la totale responsabilità dei suoi film».
È possibile sapere come si è preparato a interpretare Jack?
«Ho consultato la sterminata letteratura che riguarda gli assassini seriali. Mi sono stati utili soprattutto quattro volumi intitolati Cinquanta serial killer di cui non avete mai sentito parlare». 
Perché, cosa ha scoperto?
«Che la tendenza a commettere omicidi a ripetizione fa parte della natura umana. Il mio Jack uccide perché non possiede una coscienza morale e non prova empatia per le vittime. E per di più è un artista fallito. Ma il film non parla soltanto di questo».
Di cos’altro, secondo lei?
«Esplora il lato oscuro dell’animo umano ed è pervaso da un’ironia un po’ folle che lo rende speciale. Troppa violenza? Ma basta accendere la tv per vederne dosi ancora più massicce. O ammirare i magnifici quadri dark di Hieronymus Bosch. Lars si è limitato a illustrare una realtà che esiste, niente di più e niente di meno».
Il film non capita a sproposito nel momento in cui la violenza contro le donne è uno dei problemi più sentiti e combattuti?
«Io sono senza ombra di dubbio dalla parte delle vittime. La violenza è una delle cose più atroci che esistano. E se proprio vuole saperlo, anche le molestie sono inaccettabili. Ma partendo dal movimento #MeToo e allargando il discorso, in qualche occasione si è esagerato. Ognuno dev’essere libero di esprimere le proprie opinioni. Sono contrario a qualunque tipo di censura».
In una scena del film, Jack urla dalla finestra che questo mondo e il suo Paese, gli Stati Uniti, «non aiutano nessuno». È vero, secondo lei? 
«Non del tutto, ma in quella battuta c’è una parte di verità. Basta guardarsi intorno per rendersi conto che le cose non funzionano. Viviamo immersi nelle tragedie e nelle ingiustizie, penso ai bombardamenti in Siria e alle tante guerre che infestano il Pianeta». 
Un attore deve darsi dei limiti? Lei, ad esempio, interpreterebbe un pedofilo? 
«Non avrei niente in contrario, se fossi convinto della sceneggiatura e del regista. Per questo motivo mi sono fidato di Lars, un artista abituato ad usare la violenza per provocare il pubblico. Ma la realtà, credetemi, è peggiore dei suoi incubi cinematografici».