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 2019  febbraio 18 Lunedì calendario

Scalatori da Oscar

Il 3 giugno del 2017 dopo un tentativo abortito in venti minuti e al termine di due anni di preparazione, Alex Honnold scala la parete del El Capitan, una roccia di granito all’interno del Yosemite National Park alta quasi tre mila piedi (900 metri), il sogno proibito di ogni arrampicatore. Lo fa a mani nude, da solo, senza corde e senza rete di protezione, in quella che è considerata la più grande impresa di pura arrampicata nella storia di questo sport. Due anni dopo, questa incredibile avventura è diventata un documentario, Free Solo, candidato agli Oscar e in arrivo nei cinema domani prima di approdare in tv su National Geographic. 

Girato da due film-maker marito e moglie – Elizabeth Chai Vasarhelyi e Jimmy Chi, quest’ultimo compagno di salite di Honnold – e da una troupe di arrampicatori, Free Solo non è solo racconto sportivo, ma anche una finestra nella vita di un uomo che fino a un anno fa viveva in un camper e mangiava direttamente dalla padella. Per la statuetta riservata ai documentari se la giocherà con RBG, racconto della vita di Ruth Bader Ginsburg, giudice della Corte suprema dal 1993, ultimo bastione dell’America liberal.
«La casa poi l’ho affittata», dice riferendosi a una delle scene del documentario, quando lui e la fidanzata vanno a visitare un appartamento. Altre scene sono scosse elettriche, terrore allo stato puro, una sensazione a lui sconosciuta: «Molti pensano che io arrampichi per l’adrenalina. Nulla di più lontano dalla realtà: nei momenti più impegnativi entro in una dimensione zen simile alla meditazione, non ho emozioni, non sento nulla, sono vuoto. Negli altri penso agli amici, a togliermi le scarpe oppure o no, a quanto sono felice di essere lì». 
Dei 900 metri di arrampicata, Honnold sostiene che quelli impegnativi sono solo 300. «Negli altri 600 il rischio di cadere è quasi zero. La caduta però ha le stesse conseguenze lungo tutto il percorso». Ovvero, la morte. Alla domanda sul perché rischi la vita, dice che è una sfida, forse la più grande che un essere umano può imporre a se stesso. Dell’arrampicata, che pratica sin da bambino, ama «i movimenti, il modo in cui si usa il corpo, in maniera elementare come fai quando corri o nuoti: è tutto molto primitivo». Spazio per l’improvvisazione ce n’è poco: «Ho ripetuto certi passaggi decine e decine di volte, ho fatto segni con il gesso per marcare i punti esatti: anche quando la pioggia poi li spazza via, a me serve per memorizzare gli appoggi».
Come un supereroe, ma vero 
«È come vedere un film con un supereroe, solo che è tutto vero», sintetizza Jimmy Chi. Sei telecamere fissate alla parete, un elicottero, due camere a terra, altre tre in mano agli operatori che hanno fatto parte dell’arrampicata, Chi racconta che la difficoltà maggiore è stata quella di non dare fastidio a Honnold durante l’impresa, ma allo stesso tempo essergli vicini abbastanza per ottenere immagini di impatto cinematografico. «Le riprese a parete sono state le più complicate, ma grazie a un team eccezionale ce l’abbiamo fatta. L’altra sfida è stata di tipo emotivo». 

In una scena uno degli operatori si gira dall’altra parte, rifiutandosi di guardare il momento più pericoloso della scalata, quando Honnold deve passare da un punto a un altro in orizzontale, divaricando le gambe i quello che lui chiama «momento karate kid» e con il solo appoggio dei polpastrelli. «Che cosa fare in caso di caduta? È una conversazione che purtroppo abbiamo fare tutti i giorni», continua Chi. All’inizio lui questo film neanche voleva farlo: «Non ero sicuro che sarei riuscito a dare il giusto valore visivo alle ambizioni di Alex. È un film in cui l’aspetto tecnico si fonde con quello emotivo, con la fiducia l’uno nell’altro». 
In un’altra scena, Honnold si sottopone a una risonanza magnetica. La domanda che accompagna lo spettatore per tutto il film è: possibile che il cervello di uno che rischia la vita ogni secondo per tre ore e 56 minuti (durata dell’arrampicata) affronti la paura come quello di noi comuni mortali? «È vero che la mia amigdala è meno attiva, ma questo non significa che non provi paura. Ho solo una soglia più alta, data dall’abitudine. A 19 anni ero più spaventato di oggi. È la ripetizione che dà sicurezza».