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 2019  febbraio 18 Lunedì calendario

Intervista a Mahmood

Preferisce che la chiami Alessandro o Mahmood?
«Mahmood. Ormai, sono abituato così». 
Mahmoud, con la u, è il cognome di suo papà, che ha lasciato che a crescerla fosse sua madre. È di lui che parla «Soldi», la canzone con cui ha vinto Sanremo? 
«È nata dalla frase in arabo waladi habibi ta’aleena, “figlio mio, amore, vieni qua”. Era con quelle parole che papà mi chiamava per tornare a casa quando, bambino, giocavo nel parchetto di Gratosoglio». 
E, poi, di colpo, non l’ha chiamata più. 
«Avevo cinque anni. Sono rimasto uguale. Mia madre si preoccupava perché le chiedevo “mamma mi porti al parco?” e non “dov’è papà?”». 
Suo padre non le mancava? 
«Ero così piccolo... I momenti di rabbia sono venuti dopo e li ho superati. Però, ho scritto Soldi perché avevo bisogno di fissare i ricordi di qualcosa che poteva andare meglio». 
Canta «ieri eri qua, ora dove sei, papà?». Oggi, sa dov’è? 
«No». 
Siamo a pranzo e Mahmood abbassa gli occhi sull’omelette. Nel disco «Gioventù bruciata», che uscirà venerdì, in ben tre brani canta di suo papà. Alessandro Mahmoud, 26 anni, mamma sarda, padre egiziano, cresciuto nel quartiere periferico di Gratosoglio, a Milano, è il ragazzo dei record. Il primo ad aver vinto, tutto insieme, Sanremo Giovani, il relativo premio della critica e il Festival di Sanremo. «Soldi» è il singolo italiano più suonato di sempre su Spotify nelle prime 24 ore e nella prima settimana di uscita ed è quello entrato nella Top 100 global mondiale nella posizione più alta, al numero 40. «Mahmood... Mah... La canzone italiana più bella? Io avrei scelto Ultimo», ha twittato Matteo Salvini. Facendone, in un attimo, il simbolo di un’Italia multietnica e resistente, cosa che, vedremo, a Mahmood non va giù. 
Dice che con suo padre ha risolto, ma l’ha messo anche in «Gioventù bruciata» e «Mai figlio unico». Perché? 
«È stata un’autoanalisi, perché papà qualcosa mi ha lasciato. Quando dico che faccio Morocco Pop, è un’affermazione d’identità. Da piccolissimo, ascoltavo la musica di mamma, De Gregori, Dalla, Battisti, e quella araba di papà. Il mio primo ricordo sono io che suono la trombetta Chicco davanti alla tv. A otto anni, già prendevo lezioni di solfeggio, ma i suoni mediorientali li ho recuperati dopo, come quando da bambino non ti piacciono le verdure, poi cresci e cerchi tutte le verdure che ti sei perso». 
Il primo ricordo di suo padre? 
«Voleva insegnarmi a pescare, io la pesca la odiavo. Lo ricordo all’Idroscalo, facevamo il barbecue. E poi, la prima volta in Egitto con lui, a otto anni. Abbiamo visto il deserto, le piramidi, il museo del Cairo coi gioielli dei faraoni, sono rimasto affascinato. Mi piace che quello sia un pezzo delle mie origini». 
In «Gioventù bruciata» ha scritto della «violenza chiusa dentro quattro matrimoni». 
«Quattro sono le mogli che ha avuto papà. Ci ho fatto i conti: le persone si amano, non si capiscono più, si lasciano. Ma non sto parlando di poligamia. Mamma e papà si sono sposati in chiesa, io ho frequentato l’oratorio, ho fatto battesimo, comunione, cresima. L’Islam non c’entra». 
Cos’è l’Islam per lei? 
«Io sono per rispettare tutti. E, davanti alla violenza, sono dalla parte della vita». 
Quanti altri figli ha suo padre? 
«Io ho conosciuto una sorella a Milano e un fratello in Egitto. Quando conosci un fratello dall’altra parte del mare, a 8 anni, è già successo tutto e, dopo, niente può farti male. Dopo, io e papà, abbiamo passato altre estati insieme. I primi addii sono belli tosti, alla quarta ti abitui e ti senti più sicuro nel posto dove stai sempre». 
L’ultimo addio? 
«Qualche mese fa». 
Dopo la vittoria l’ha sentito? 
(Silenzio). 
In «Soldi», scrive «dimmi se ti manco o te ne fotti». 
«Non penso che non se ne importi. Voglio credere che tutti hanno umanità. Ma ci sarà modo di chiarire, io non chiudo le porte». 

Quando i suoi colleghi rap e trap cantano di soldi, sono Rolex e Rolls Royce. Lei i soldi li depreca come inquinatori di rapporti. 
«Volevo raccontare come possono condizionare i sentimenti e le famiglie. In un divorzio, i genitori possono dividersi sul mantenimento, la casa... Anche nel video, gli uomini neri davanti al bambino rappresentano i soldi, la società coi suoi valori non puri». 
Ha davvero un cobra tatuato sulla schiena come in quel video? 
«No. Il cobra rappresenta il marchio che ti segna. Il cobra, nel video, ce l’ha anche tatuato, in piccolo, il padre. È il dubbio che cresce, se non lo risolvi, ma io, con mio padre, dei dubbi ho parlato». 
Che mi dice del ritornello «come va? Come va...»? 
«È la frase migliore, a volte, per dire che non t’interessa davvero sapere come va». 
Come si cresce senza padre, riuscendo comunque a fare la propria strada e affermarsi? 
«Devo tutto a mamma. All’inizio, mi accompagnava lei dal maestro di musica, partendo da Buccinasco, dove lavorava, e portandomi a Baggio. Ogni giorno, un viaggio. Mi ha fatto da madre e da padre. Non posso dire che papà mi sia mancato, perché lei mi ha dato tutto. Mi ha sostenuto. Mi diceva: ti pago i corsi di musica solo se vai bene a scuola». 
E lei andava bene? 
«Alle elementari vincevo sempre la medaglia come miglior lettore di libri. Però, alla maturità, non mi sono presentato. Era una fase ribelle, facevo tardi la sera. L’anno dopo, per punizione, mamma non mi mandò a musica». 
Cos’era per lei, la musica? 
«Da bambino uno sfogo e, crescendo, lo scopo primario. Finito il liceo, facevo il barista all’alba e al mattino per poter studiare pianoforte il pomeriggio. A un certo punto, mamma aveva un bar in via Larga a Milano, veniva a mangiare il figlio di Caterina Caselli, mamma voleva che gli dessi un cd, non l’ho fatto. Dopo Sanremo giovani 2016, ho preferito star fermo. Ho scritto per altri, mi sono perfezionato, volevo maturare musicalmente. E poi pensavo: metti che perdiamo un cliente». 
Com’è la «Milanosoglio» di «Mai figlio unico»? 
«Nella vita, la chiamo Gratosolliwood. Non è una periferia brutta come l’ho vista in certi servizi tv. Bisogna vederla in una bella giornata di sole. Ci sono cresciuto senza paura, ho più paura in piazza Duomo». 
Per il sindaco Beppe Sala, la sua è una vittoria di Gratosoglio, di Milano, dell’Italia. 
«Bella frase, mi piace, ma per far vincere Gratosoglio non basto io a dare una mano. E comunque non mi sento svantaggiato per essere nato lì, le periferie sono posti dove tanti giovani crescono bene, tanti che fanno bella musica vengono da posti così». 
Gratosoglio è anche il quartiere di Micol, la diciottenne che a novembre ha rapinato una farmacia con una pistola, ridendo. 
«Anche in centro fanno le rapine». 
Che risponde alle polemiche sulla frase di Salvini? 
«Che io non ho mai avvertito di essere diverso. La differenza me la stanno facendo sentire oggi. Ho fatto le scuole con bimbi russi, bulgari, rom. Il più figo della classe era cinese, quello un po’ bullizzato era italiano, messo in mezzo perché cicciottello, non per altro». 
Sui social, c’è chi ha scritto «italo egiziano e pure gay, Salvini sarà contento». 
«Io non ho mai detto di essere gay. La mia è una generazione che non rileva differenze se hai la pelle di un certo colore o se ami qualcuno di un sesso o di un altro. Io sono fidanzato, ma troverei poco educata la domanda se ho una fidanzata o un fidanzato. Specificare significa già creare una distinzione». 
Vivrà ancora con sua madre? 
«Mi comprerò un monolocale. Forse a Gratosoglio, forse altrove, ma voglio far sentire a mamma che ora ce la faccio da solo». 
Se le chiedo ora come va? 

«Va che ora devo fare di più. Andrà meglio o peggio, ma dovrò dare ancora il massimo e lo darò».