Corriere della Sera, 18 febbraio 2019
In morte di Lee Radziwill, sorella di Jackie Kennedy
Lee e Jackie, sorelle siamesi. Condannate dalla nascita a essere bellissime, ricchissime, elegantissime, punto di riferimento irraggiungibile per le altre donne «normali» a cui riservavano tutt’al più un benevolo sorriso. Venticinque anni dopo Jackie Kennedy, è morta la sorella minore Lee Radziwill, 85 anni. Le sorelle Bouvier: Jackie la più grande, bruna, pacata, Lee la più piccola, bionda e ribelle. Figlie dell’agente di cambio «Black Jack» Bouvier, sosia di Clark Gable, giocatore e bevitore e dongiovanni, l’uomo che le vaccinò sul pronti-via, per sempre, dall’illusione che gli uomini non le avrebbero tradite, prima o poi. Cresciute al 740 di Park Avenue, reggia dell’Upper East Side di Manhattan. Condannate a essere attratte dagli stessi uomini: Lee fino alla fine, anche dopo la morte di «Jax», si lagnava che «tutti ci hanno sempre visto come sorelle siamesi». Cercò la sua identità con ferocia: dopo un primo matrimonio archiviato, rispose alla mossa di Jackie – le nozze con il senatore rampante, bello e donnaiolo che aveva bisogno di una moglie per sedare le voci di dongiovannismo seriale – con un lampo di genio. Al futuro presidente trovato dalla sorella replicò con un principe polacco, Stanislaw Radziwill, che le regalo il titolo di «sua altezza serenissima» oltre a proprietà immobiliari che l’avrebbero resa ricca anche dopo il divorzio.
Festaiola, arredatrice per hobby e PR per passare il tempo, musa di Andy Warhol e amica dei Rolling Stones che segui nello storico tour del 1972, jeans e piedi nudi e camicie bianche di Charvet a fianco dei roadie in pelle e nera e delle groupie seminude e delle carrettate di cocaina.
Da mamma Janet ereditò come Jackie le buone maniere e la voce sottile patrizia da quartieri alti di Manhattan – voce oggi malamente imitata da Ivanka Trump – ma soprattutto ereditò l’allergia a giustificarsi. «Nella loro mente usano entrambe il plurale maiestatis, come le regine», disse uno che le conosceva bene, lo scrittore Truman Capote, il confidente al quale Lee raccontava tutto. Lei gli regalò – quando Capote era al vertice della fama per «A sangue freddo» – un portasigarette d’oro con dedica «A Truman, la mia preghiera esaudita». E Capote chiamò proprio «Preghiere Esaudite» il libro in cui tradì le confidenze delle sue amiche.
Lee ebbe modo di vendicarsi, sbugiardando Capote in tribunale e facendogli perdere una causa da un milione di dollari (primi anni ‘70) intentata da Gore Vidal, rovinando Capote e aggiungendo la crudele postilla del commento, al New York Post, «una disgustosa rissa tra froci», cosa che spezzo il cuore di Capote più del milione perso.
Dopo il principe polacco venne il regista hollywoodiano minore (Herbert Ross di «Provaci ancora Sam») silenzioso e solvente, come piaceva a lei, libera di frequentare le sfilate parigine della haute couture durante le quali ancora di recente incantava per l’assoluta eleganza, il portamento glaciale, la bellezza tutelata da lifting realizzati dai più costosi maestri del bisturi mondiale. La si ammirava in prima fila alle sfilate di Giambattista Valli, di Saint Laurent, monumento alla sua classe e a un’epoca che non c’è più, inorridita in modo silente ma inequivocabile dalla volgarità delle influencer e dalla normalità di tutte le altre invitate. Lee sorella siamese di Jackie, impegnata fino all’ultimo minuto a dimostrare a papà Jack che la più bella, la più elegante, era lei.