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 2019  febbraio 18 Lunedì calendario

Traforo del Fréjus, così Cavour vinse la battaglia per la Tav dell’800

Il 15 agosto 1857 il Parlamento subalpino approvava la legge che autorizzava la grande opera del traforo del Fréjus, con uno stanziamento per l’epoca davvero importante di 41 milioni e 400 mila lire. Presenti e votanti 128, maggioranza 65, favorevoli 98, contrari 30. Contro il suo principale antagonista, il deputato Cristoforo Moia, Cavour otteneva la fiducia nel progetto di congiungere il Piemonte e la Savoia mediante una linea ferroviaria che corresse in una galleria di 12 chilometri nel cuore della montagna. E rendesse possibile il collegamento veloce di passeggeri e merci da Bardonecchia a Modane, e da lì, nelle diverse direzioni, verso Lione e Parigi, Chambéry e Ginevra; e verso Torino e Genova, e in prospettiva verso Novara e Milano. 
L’opposizione in Parlamento all’ardito e visionario progetto aveva puntato sui costi dell’operazione, giudicati imprudenti per il Piemonte, che aveva sulle spalle un debito di 680 milioni: prevalentemente derivato dalle campagne di guerra contro l’Austria. Non erano argomenti pregiudizialmente polemici quelli del deputato Moia. Non avevano nulla da spartire con altre superstizioni, che ipotizzavano che la perforazione, incontrando nelle viscere della montagna laghi sotterranei, avrebbe causato l’inondazione delle valli di Susa e dell’Arc; che avrebbe innescato l’esplosione di rocce incandescenti; o ancora sprigionato fumi e gas velenosi e mortiferi. Per non dire dei soliti mostri che sarebbero usciti dagli anfratti a scatenare il terrore dei montanari. Ma i conti erano stati fatti con precisione, tenendo in considerazione tre elementi: le soluzioni tecnologiche, i vantaggi economici delle regioni collegate secondo il nuovo percorso delle merci, e la durata nel tempo della infrastruttura ferroviaria. 
Cesare Médail, per primo, aveva intuito i vantaggi dell’opera. Ma in tempi non ancora maturi. A cavallo fra gli Anni 30 e 40, il Piemonte sembrava avere altre priorità. Quando al governo giunse Cavour e in Parlamento arrivarono schiere di ingegneri e esperti di finanza, allora la questione divenne centrale. Venivano tutti dalle Scuole di Artiglieria e Genio. Cavour sapeva benissimo come la filosofia dell’utile si dovesse appoggiare alle conquiste della scienza e della tecnologia. E come il futuro di una nazione consistesse nella sua capacità di collegarsi ai grandi centri della economia continentale e mondiale. 
Nei primi Anni Cinquanta, il Piemonte aveva già una rete ferroviaria superiore a quella di tutto il resto d’Italia. Ma il tema era quello di far viaggiare persone e merci per competere con i mercati stranieri. Genova, con il traforo, avrebbe sottratto una enorme fetta di mercato a Marsiglia; Torino sarebbe divenuta lo snodo del commercio dei risi e dei grani padani, dei tessuti che andavano e venivano da Londra, e di tante altre merci. 
Il deputato Moia dovette barricarsi dietro questioni tecniche: «Signori, la fede trasporta le montagne, ma non le trafora. La fede produce fecondi progettisti, ma i buoni amministratori […] vogliono dei fatti». Era il 27 giugno 1857. Cavour rispondeva: «Signori, l’impresa che vi proponiamo, non vale il celarlo, è impresa gigantesca. […] Le grandi imprese non si compiono, le immense difficoltà non si vincono che ad una condizione, ed è che coloro a cui è dato di condurre queste opere a buon fine abbiano una fede viva, assoluta nella loro riuscita. Se questa fede non esiste, non bisogna accingersi a grandi cose né in politica, né in industria». A quel punto, tra applausi scroscianti, la Camera approvava. Era un Parlamento diverso, quello, dal nostro: amministratori di prim’ordine si affiancavano sui banchi a ingegneri e matematici. I conti non erano ambigui e la visione politica era lungimirante. E l’impresa era ben più ardita e piena di incognite che non l’odierna Tav.
Fior di tecnici italiani e stranieri avevano studiato i profili geologici, fisico-meccanici e chimici. Fin dagli Anni 40 si era posto all’opera l’ingegnere belga Henry Mauss, per mettere a punto una macchina perforatrice. Il generale Menabrea, deputato per sei legislature e poi senatore, e il ministro Paleocapa, entrambi ingegneri di chiara fama, ne avevano studiata l’efficienza. Gli studi preliminari erano stati inviati alle università e accademie scientifiche di tutta Europa. Infatti intervenne un fisico di Ginevra, il professor Daniel Colladon, che suggerì altre macchine, prima animate dal vapore, poi dall’aria compressa. Con altre modifiche, si aggiunse l’inglese Thomas Bartlett. Negli Anni 50, entrarono definitivamente in gioco gli ingegneri Germano Sommeiller, deputato, Severino Grattoni e Sebastiano Grandis. 
La loro innovazione tecnologica si basava su macchine idrauliche a colonna. Ne scaturì la macchina idropneumatica, che avrebbe risolto la situazione. Il 5 maggio 1857 il ministro Paleocapa affidava loro il compito del progetto definitivo, con l’appoggio dell’ingegnere e architetto Aloisio Ranco, esperto di gallerie sotterranee. Persino Quintino Sella, ingegnere idraulico prima ancora che grande uomo di finanza, avrebbe messo mano tecnicamente al progetto. Era ancora tutto da fare; ma la visione economica e politica era chiara. «Questa impresa è di utilità somma per il Paese», aveva dichiarato Cavour, affermando di aver «matematicamente dimostrato […] che l’onere che essa impone alle finanze sarà largamente compensato dai vantaggi diretti e indiretti che se ne ritrarranno». 
La legge passava il 15 agosto, i lavori cominciavano il 31 agosto, dopo due settimane. La Savoia, passata alla Francia dopo il 1861, indusse i francesi a contribuire all’opera. Pattuirono che avrebbero contribuito con 19 milioni purché i lavori si fossero conclusi entro 25 anni, concedendo un premio di 500 mila lire per ogni anno guadagnato; e 600 mila per ogni anno sotto i 15. Le migliaia di operai e le decine di ingegneri terminarono i lavori in 9 anni. I francesi pagarono 26 milioni e 100 mila lire. Il costo effettivo della grande opera sarebbe risultato «in cifre tonde di 70 milioni di lire», come riferiva alla Camera il ministro dei Lavori pubblici il 17 marzo 1873. Varie cause avevano determinato l’aumento dei costi: le guerre, da un lato, avevano inizialmente rallentato i lavori; macchine e materiali provenienti dall’estero avevano subito costanti aumenti di prezzo; e, ovviamente, era aumentato con gli anni il costo del lavoro. 
La fine dell’opera fu salutata con grandi feste in Francia e in Piemonte. Si era aperta un’epoca nuova. All’indomani dell’incontro in galleria fra italiani e francesi, il 26 dicembre 1870, il sindaco di Torino Felice Rignon scriveva ai torinesi: «Concittadini […] ecco caduta l’alta barriera che separava due popoli: ecco aperta una nuova via di grandi commerci […] che, porgendo il facile mezzo di scambiare fra le nazioni i prodotti della ubertosa natura e i frutti della umana industria, farà nascere la pubblica e privata ricchezza». Sarebbe auspicabile poter rileggere questo manifesto nei prossimi anni.