La Stampa, 18 febbraio 2019
L’acqua pubblica costerebbe nel primo anno 19-23 miliardi
Togliere di mezzo Acea, Iren, Hera, A2a e tutte le altre piccole e grandi società o consorzi che oggi gestiscono il business dell’acqua (278 in tutto, con quasi 28mila occupati e un giro d’affari annuo di 7,5 miliardi) come propone la legge in discussione alla Camera non è un’operazione a saldo zero. Il ritorno alla gestione diretta dell’acqua da parte delle pubbliche amministrazioni, con la trasformazione di tutte le attuali gestioni dei servizi idrici in aziende speciali o in altri enti di diritto pubblico, è un’operazione che presenta costi non indifferenti. Tant’è che il progetto di legge Daga prevede di istituire presso il ministero dell’Ambiente un apposito fondo per la ripubblicizzazione dell’acqua. Poi c’è il costo del servizio idrico, ovvero la gestione delle reti, la sua manutenzione e i nuovi investimenti, e per questo la nuova legge introduce un’altra novità: anziché reperire i fondi attraverso il solo sistema delle tariffe, oggi è regolato dall’Arera, l’authority che regola i settori dell’energia, delle reti e dell’Ambiente, si farebbe ricorso alla fiscalità, sia quella generale che specifica, e solo parzialmente alle tariffe.
Le stime
I costi? Altissimi. Secondo le stime del Laboratorio servizi pubblici di Ref Ricerche andrebbero previsti 16 miliardi una tantum per indennizzare i gestori uscenti (4-5 miliardi relativi agli investimenti non ancora ammortizzati, conguagli per costi pregressi non ancora recuperati in tariffa, ed eventuali indennizzi per il termine anticipato delle concessioni) e per rimborsare i finanziamenti che hanno acceso per un importo stimato in 10,6 miliardi e che in virtù della loro trasformazione in enti di diritto pubblico farebbero scattare le clausole di risoluzione anticipata dei prestiti. A questo vanno aggiunti circa 7 miliardi di euro l’anno di costi ricorrenti: 5 miliardi di fabbisogno annuo di investimenti per i prossimi 20 anni e 2 miliardi di euro l’anno per garantire il quantitativo minimo vitale di 50 litri d’acqua procapite al giorno. C’è poi una terza voce, legata ai costi di transizione (eventuali contenziosi fiscali, mancate nomine negli organi e bilanci non approvati, scorporo dei rami di aziende delle varie multiutility, contenziosi con personale e sindacati, ecc.) che però il Laboratorio non è in grado di quantificare ma che certamente in prospettiva possono ulteriormente aggravare i costi.
A conclusioni non molto diverse sono arrivati anche i consulenti di Oxera, società fondata nel 1982 da professori dell’Università di Oxford, che per il primo anno prevede un salasso per i conti pubblici nell’ordine di 18,6-22,5 miliardi di euro, in pratica l’importo di una manovra finanziaria. Si tratta infatti di mettere in conto tra 14,6 e 16,5 miliardi di euro di costi una tantum (compresi 2 miliardi di euro di mancato riconoscimento dei canoni di concessione), e tra 4 e 6 miliardi di euro l’anno di costi di gestione: tra 2,3 e 4,3 per finanziare gli investimenti e 1,7 miliardi per finanziare la quota di consumo minimo vitale.
Aumenta il debito
Senza contare altri effetti collaterali, a partire dal fatto che l’eventuale debito delle aziende speciali rientrerebbe nel perimetro della pubblica amministrazione aggravando il debito pubblico ed a ruota il relativo costo degli interessi. Mentre il Laboratorio del Ref segnala a sua volta il pericolo che facendo ricorso alla fiscalità generale «si sposta l’onere del finanziamento del servizio idrico dal consumatore/utente al generico contribuente rendendo così i costi in questione meno percepibili e riducendo quindi la trasparenza ed il controllo sociale sulla spesa». Insomma si continuerebbe a perpetrare l’idea che la fornitura di acqua potabile e la depurazione non costa, favorendo così sprechi e comportamenti opportunistici.