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 2019  febbraio 18 Lunedì calendario

Intervista a Neri Marcorè sul calcio

Neri Marcorè è lungo e asciutto come Giacinto Facchetti, ma racconta che da ragazzo giocava in attacco. Nella Settembrina di Porto Sant’Elpidio, terza categoria marchigiana. «Ambidestro, piedi buoni. Testa alta, rapido. E non ero innamorato del pallone». Se lo dice lui. «Ora mi vedrei meglio a centrocampo, davanti alla difesa. Però alla Nazionale Cantanti mancano i terzini, così mi schierano dietro». Come Facchetti.
Domani sera scende in campo: c’è da battere un rigore al Gato Diaz, che aveva parato quello più lungo della storia dal calcio, come raccontato da Osvaldo Soriano. L’attore sarà anche un arbitro colombiano, Alvaro Ortega, ucciso trent’anni fa per aver negato una rete decisiva alla squadra dei narcos, l’Independiente di Medellin.
Giocherà prima la finale Argentina-Olanda al Monumental di Buenos Aires, quella del ’78. Gli impossibili Mondiali del ’42 in Patagonia, altra invenzione di Soriano, con gli indios mapuche. E lo spareggio "fantasma" tra Cile e Russia, con l’assurdo gol di Valdés che poi si scusò davanti alla tomba di Pablo Neruda. Al Teatro Modena di Genova debutta in prima assoluta Tango del calcio di rigore, affresco su futból e potere nell’America Latina: tango, tragedia, commedia. Una tanghedia sulle note di Piazzolla e Sosa, i racconti di Kapuscinski, Galeano, Soriano, Benni: scritta da Giorgio Gallione e prodotta del Teatro Nazionale del capoluogo ligure. Con Marcorè tra i protagonisti, insieme a Ugo Dighero e Rosanna Naddeo, in replica fino al 10 marzo.
Ai Mondiali d’Argentina le urla di gioia del pubblico coprivano quelle dei desaparecidos, torturati in una caserma poco lontano dallo stadio.
«In tribuna, accanto al dittatore Videla, festeggiava l’amico Licio Gelli. Il Venerabile della P2, socio in affari dei componenti della giunta militare. Papa Paolo VI aveva inviato la sua benedizione, Henry Kissinger diceva in mondovisione: "Questo paese ha un grande futuro". Gli interessi economici, prima di tutto. Compresi quelli italiani: da Calvi col Banco Ambrosiano alla Fiat, Pirelli, Eni, Magneti Marelli, Banco di Napoli, Bnl. Arbitro Gonella, reti di Kempes e Bertoni: Passarella solleva il trofeo, lo consegna a Videla. Viva il futból».
Sono passati quarant’anni.
«Il calcio è ancora un narcotico, un oppiaceo. Come i social. Fumo negli occhi. Depista, annebbia la coscienza: ti fai il tuo abbonamento alla televisione e tutti i giorni c’è una partita, le chiacchiere dallo studio. Un incontro ogni tanto va benissimo: ma non l’intera settimana e a ogni ora, pure le repliche. Perché se non hai altro nella vita, finisce che solo quella roba ti permette di andare avanti: non pensi, perdi il tuo senso critico. Finisci per rincoglionirti. E più ti rincoglionisci, meno ti occupi di quel che fa davvero Salvini».
Qualcuno vuole tornare al calcio della domenica pomeriggio.
«Ma poi, in settimana chi glielo dà il metadone alla gente?».
I calciatori non lo sanno.
«El Lobo Carrascosa, capitano dell’Argentina, preferì farsi da parte alla vigilia di quei Mondiali. È impossibile non sapere, anche perché c’è sempre qualcun altro che apre gli occhi e te lo dice. Puoi far finta di nulla, raccontartela: non dipende da me, non sono decisioni che devo prendere io, lo sport non può cambiare le cose, se gioco o no è lo stesso e allora gioco. Ma puoi anche ribellarti, scegliere: come Jessie Owens a Berlino. Come Panatta e l’Italia di Davis: andarono in Cile non per celebrare il regime, ma per togliergli la maschera».
Ribellarsi, scegliere: anche oggi?
«Sì. Come per gli insulti razzisti a Koulibaly: l’arbitro doveva sospendere la partita. Subito. Si dovevano fermare i giocatori del Napoli, e prima ancora quelli dell’Inter. C’è in gioco la dignità umana, siamo tutti Koulibaly. Tommasi e l’associazione calciatori devono fare chiarezza: al primo segnale di razzismo, tutti negli spogliatoi. Perché non si può non sapere. Minimizzare gli episodi significa permettere alla gente di sviluppare gli istinti peggiori. Il tifoso lo devi colpire in ciò che gli è più caro: la partita».
C’è ancora un calcio di sinistra e di destra?
«La linea di demarcazione è la stessa di poesia e prosa. Il calcio di sinistra, ammesso che esista ancora, è quello di chi si rialza in piedi e ammette che il rigore non c’era. È il gesto sportivo, il riconoscimento dell’avversario. Il calcio di destra è quello della sopraffazione, dell’insulto, della vittoria a tutti i costi».
Servono buoni esempi.
«Io ne ho avuti due: Scirea, Zoff. Umanamente, il primo lo metto davanti a tutti. E l’altro: non modesto ma umile, come gli piaceva dire. Persone, prima che calciatori. Grande classe, niente fuffa, molti fatti. Rispettosi. Mi piace chi lavora sodo e vive lontano dal terreno di gioco: Chiellini non polemizza mai e si è laureato. Ce ne sono altri. Persone che senza bisogno dei tweet, resistendo al desiderio di mettersi al centro, riescono a distinguersi dagli altri».
Cristiano Ronaldo ha 76 milioni di follower su Twitter.
«Però è uno che fa squadra. Anche se tira tutte le punizioni. Si carica sulle spalle i compagni, tiene gli altri su di giri e coesi».
Dice così perché è juventino.
«Ascoli e Juve. Mi ricordo un Ascoli-Verona 1-3: Dirceu con un lancio tagliava in due il campo. E uno 0-2 dall’Udinese, Mauro inafferrabile, l’Ascoli in B. Poi una mattina a Roma, dopo la sconfitta con l’Argentina ai Mondiali del ’90: la città si muoveva al rallentatore, sotto shock. Studiavo a Bologna, ero sceso col treno a Termini, stavo per fare un provino per Stasera mi butto: quel giorno la mia vita sarebbe cambiata per sempre».
Il calcio è bellissimo.
«Ma è un po’ come i würstel. O gli smartphone. Per goderseli, meglio non pensare a quel che c’è dentro».