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 2019  febbraio 18 Lunedì calendario

L’uomo che fa la guerra alle parole inglesi

Qual è la mission di un’impresa? Come si chiama il nuovo manager? A che ora è il briefing? Parole come queste entrano nella nostra lingua tutti i giorni. Sono diventate così comuni da aver del tutto sostituito i termini italiani. Da essere perfino entrate nei vocabolari ufficiali, alla stregua dei loro italianissimi sinonimi. Ma c’è chi a questa invasione degli anglicismi ha deciso di non voler arrendersi. E così ha messo a punto un portale che in tempo reale traduce qualunque parola straniera nell’idioma del Belpaese. L’autore, Antonio Zoppetti, è un insegnante e saggista, già curatore dell’edizione elettronica del dizionario Devoto Oli. Ha battezzato il suo progetto “AAA”, cioè “Alternative agli anglicismi” (su internet è possibile trovarlo all’indirizzo aaa.italofonia.info). Il sito è gratuito, a disposizione di chiunque voglia provare a esprimersi solo in italiano, senza cedere alla tentazione – e alla pigrizia – di piegarsi a una delle circa 3.600 parole inglesi comunemente utilizzate anche da noi. «Le accademie spagnole e francesi hanno prodotto da tempo lavori di questo tipo», racconta. «In Italia le istituzioni o l’accademia della Crusca non lo hanno mai fatto. Visto che studio il fenomeno da ormai tre anni ho provato a farlo io. Ho pubblicato tutto a settembre del 2018 e a novembre è uscito anche un libro dal taglio più sbarazzino in cui ho selezionato solo gli anglicismi più diffusi che avessero alternative e sinonimi italiani in uso (L’etichettario. Dizionario di alternative italiane a 1.800 parole inglesi, Franco Cesati, Firenze). Mi rattrista che nel nostro Paese un lavoro del genere sia lasciato all’iniziativa privata di una persona, che opera in modo indipendente e senza finanziamenti. Dovrebbe essere qualcosa di istituzionale». Il portale raccoglie 3.600 anglicismi, tutti con la loro alternativa Made in Italy. «C’è la possibilità di ricerca per parola», prosegue l’autore. «Ma ogni voce è stata marcata attraverso categorie e ambiti, dunque è possibile anche una consultazione per tema. Ci sono circa cento diverse etichette, che si spingono nel dettaglio per classificare per esempio gli anglicismi culinari o altre curiosità».

IL PROGETTO
L’obiettivo del progetto è far circolare il più possibile le alternative e i sinonimi italiani che rischiano di regredire davanti all’inglese. «A volte non ci viene più spontaneo pensare in italiano prima di parlare, e crediamo che parole come feedback o budget siano intraducibili solo perché nessuno dice più riscontro o tetto di spesa, e queste soluzioni non ci vengono in mente», dice ancora Zoppetti. «L’obiettivo non è bandire i forestierismi come all’epoca del fascismo, al contrario è quello di promuovere la libertà di scelta dei parlanti e di arricchire il nostro lessico che si sta depauperando attraverso un inglese molto stereotipato».

COLONIZZAZIONE
Ma perché questa colonizzazione sembra inarrestabile? «Non si tratta di una semplice moda», fa presente l’esperto. «Sotto c’è qualcosa di ben più profondo e grave: un complesso di inferiorità verso l’inglese. Il termine manager porta con sé l’efficienza americana rispetto a dirigente o responsabile. Ormai ripetiamo ogni tipo di anglicismo con orgoglio, senza la reattività che si trova in Paesi come la Francia o la Spagna, dove non ci si vergogna di usare le proprie parole (ordinateur/computador, souris/ratón e non computer e mouse)». Nel frattempo il lessico italiano continua a perdere colpi, e i nostri connazionali a “dimenticare” la loro lingua. «Nel 1990 ho curato la prima edizione digitale del Dizionario Devoto Oli, all’epoca gli anglicismi erano circa 1.700», ricorda. «Nel 2017 lo stesso dizionario ne contava ben 3.400. L’italiano sta perdendo la capacità di evolvere. Tutto ciò che è nuovo e tecnologico lo diciamo in inglese, senza tradurre, senza adattare. Il dato più allarmante dello spoglio dei dizionari è che la metà dei neologismi del nuovo Millennio è in inglese, così come il 50 per cento dei termini dell’informatica». Il rischio è che la nostra lingua diventi una sorta di “dialetto”, sempre più incapace di essere al passo con i tempi.