Se tu potessi salire sulla macchina del tempo, in quale momento della tua età torneresti volentieri indietro?
«In qualunque momento imprecisato prima dei miei sette anni».
Perché?
«Credo sia stata la fase più felice. Fino a sette anni ho adorato mio padre. Poi ne ho avuto paura».
Cosa temevi di lui?
« La sua parola. Ogni sua frase non conteneva nessuno sforzo di spiegazione. Mi veniva lanciata come una sentenza. Con me aveva un atteggiamento molto profetico e del resto per lui l’ebraismo fu importante».
E per te?
«Lo è culturalmente. Mia madre proveniva da una famiglia cattolica e io non ho mai scelto tra le due religioni. Non so neppure se sono un credente; ma non sono neanche un ateo».
Che cosa sei?
«Ho una mia idea di religione che si avvicina all’afflato umano, al senso della misericordia e della solidarietà. Il nucleo di quello che ti sto dicendo l’ho scoperto in Cechov, più che in Tolstoj».
Filtri la tua vita attraverso la letteratura?
«Non potrei farne a meno, è il solo codice che riconosco e che mi interessa».
È un omaggio a tuo padre?
«È stato un personaggio da romanzo proustiano».
Cosa intendi dire?
«In lui convivevano il dandy e il rabbino. Prosaicamente l’intelligenza libertina, la passione per le donne e per lo studio».
Quali erano le sue, le vostre origini?
« Piemontesi. Mio nonno Tobia era commerciante a Biella; mia nonna Elisa Norzi aveva una passione per la matematica. La trasmise a mio padre, che affrontò un biennio di matematica per laurearsi in ingegneria. Ma poi rinunciò e finì col laurearsi in Filosofia del diritto con Gioele Solari e poi in lettere con una tesi su D’Annunzio».
Cosa si prefiggeva?
«Non voleva cattedre, sebbene si fosse laureato a pieni voti. L’università sarà il “mal digerito” degli anni a venire. Negli anni Trenta divenne amico di Felice Casorati e Piero Gobetti. Adorava il cinema. E fece lo sceneggiatore sotto falso nome».
Un inquieto?
« Provò continuamente a stupire sé stesso. Anch’io ho passato la vita cercando di stupire me stesso. Eppure non volevo essere come lui, diventare come lui».
Cosa volevi?
«Desideravo qualcosa che non fosse già scritto nel copione della vita. Quando finii il mio libro Giacomino mi accorsi che non c’erano precedenti. Non era una saga familiare, era tutto il sommerso che avevo lasciato fino ad allora vivacchiare. E quando lo lessi a mia madre, ormai cieca, le chiesi se era il caso di pubblicarlo. Mi disse: fallo, hai sciolto parecchi nodi».
Era più un confronto o una resa dei conti?
«Non volevo cancellare la figura paterna, ma arrivare al dunque della sua complicazione. Chi era stato per me quell’uomo che in vita fu considerato uno sconclusionato e che solo dopo morto venne avvolto da un’aura di leggenda?».
Sconclusionato?
«Ma sì, non si alzava mai prima di mezzogiorno. Il suo, a causa dei sonniferi, era un risveglio lentissimo. Fino alle due del pomeriggio la casa era avvolta nella penombra e nel silenzio. Con mia sorella Elisa vagavamo tra le stanze come fantasmi».
Dove abitavate?
«A Roma, all’Aventino, in via Sant’Anselmo».
In chi ti imbattevi?
«Ero abbastanza piccolo, ma una presenza costante fu quella di Sergio Amidei con cui mio padre scriveva le sceneggiature. Amidei avrebbe in seguito collaborato a Roma città aperta e ad altri film importanti. Due figure familiari erano Umberto Saba e Bobi Bazlen. Saba passò anche dei periodi come ospite. Dormiva in una stanzetta. Mio padre ne ammirava la poesia».
Non penso fosse una persona facile.
«Tutt’altro. Era un ospite straordinario e invadente. Morfinomane, omosessuale, capriccioso, possessivo ma capace di punte di affetto inarrivabili. Una sera a cena oltre a mio padre, Saba e me c’erano Bazlen e Galvano della Volpe. Improvvisamente Saba cominciò a gridare e a inveire contro papà e Bazlen».
Cosa gli era preso?
«Non lo so. Si alzò da tavola e agitando il bastone urlò: “Maledetti junghiani!”, poi si dileguò arrancando verso il salotto. Ci guardammo costernati. Della Volpe andò a recuperarlo e lui tornò come se nulla fosse accaduto».
Ma Jung che c’entrava?
«Mio padre attraverso Bazlen aveva conosciuto Ernst Bernhard, che era stato allievo di Jung. E si frequentarono a lungo. Quella sera qualcosa di legato alla psicoanalisi suscitò la reazione di Saba, ma è per dire quanto a volte poteva essere imprevedibile».
Mi incuriosisce la presenza di della Volpe, apprezzato teorico del marxismo, che rapporti aveva con tuo padre?
«Della Volpe ne ammirava le capacità critiche, era riuscito a farlo chiamare all’università di Messina e lì insegnò per diversi anni».
Ebbero un certo destino comune. Entrambi confinati in una università periferica. Entrambi legati al Pci, ma guardati con sospetto dal partito.
«Le intelligenze troppo libere o troppo sofisticate non erano apprezzate. Papà era amico di Mario Alicata e di un giovanissimo Antonello Trombadori. Una sera decise di invitare a cena Togliatti, insieme ai due amici del Pci. C’era anche Saba. A lui Togliatti chiese di recitare una sua poesia. E Saba, dispettoso come al solito, recitò un piccolo madrigale in omaggio alla duchessa d’Aosta».
Togliatti come reagì?
«Non si scompose. Oltretutto, di lì a qualche mese ci sarebbe stato il referendum monarchia o repubblica. Con molta ironia il capo del Pci rievocò l’intera dinastia sabauda».
Però il Pci non amava tuo padre.
«Ne ammirava l’intelligenza sottile considerandola tuttavia pericolosa. Papà allora collaborava a l’Unità. Da cui fu allontanato. Ottavio Cecchi mi raccontò che l’intenzione di far tornare Debenedetti a collaborare fu bloccata proprio da Alicata con la giustificazione che la sua scrittura non era adatta ai lettori dell’Unità ».
In tutto questo com’era nato il rapporto con Bazlen?
«Si erano conosciuti a Trieste. Bobi gli fece scoprire Svevo e poi la letteratura austriaca. Cominciarono a frequentarsi quando Bazlen si trasferì a Roma. Viveva in una stanza molto spoglia non distante dalla casa di Fellini, in via Margutta».
E che impressione ne ricavasti?
«Apparteneva all’Europa remota dei grandi viaggiatori, di coloro che preferibilmente si spostavano a piedi. Me lo immaginavo uscito da qualche villaggio di ebrei ashkenaziti, con la sua saggezza disinteressata. Allora non ne percepii la grandezza. Del resto, non faceva nulla per esibirla. Solo quando ho letto le sue note editoriali colsi qualcosa di straordinario che mi ha fatto capire una cosa: i libri sono più affidabili delle persone».
Non hai mai sentito il peso di una cultura troppo libresca?
«Al contrario i libri mi davano leggerezza».
Anche quando hai cominciato a scriverli?
«Ho iniziato tardi. Cominciai come poeta, incoraggiato da Giorgio Caproni, un altro che era molto di casa. Scrisse la prefazione alla mia raccolta Rifiuto di obbedienza ».
Tuo padre come accolse il libro?
«Avevo diciotto anni. Era un libro scritto sui banchi del liceo. Mio padre non disse mai nulla. Però quando Ungaretti volle che partecipasse al Viareggio, papà mi scoraggiò dal presentarlo. Il mio rammarico è di non aver mai potuto sottoporgli i miei racconti».
Sarebbe stato un rischio?
«Nei giudizi sulla letteratura era crudele. Una volta gli diedi da leggere un mio piccolo componimento. Lasciò il foglio fuori dalla camera da letto. Lo raccolsi e vidi che con la penna rossa aveva scritto: sintassi monotona. Mi sarei ammazzato».
Hai mai temuto che ti considerasse mediocre?
«No. Ma ho cercato i miei maestri altrove: Emilio Cecchi, Edmund Wilson soprattutto. E quanto alla scrittura, almeno all’inizio, Gadda e Manganelli. Mio padre, nonostante la grandezza di critico, era un’altra cosa. Lo vivevo come l’autorità indiscussa. Sentivo che lui da me voleva qualcosa che non sapevo se avrei potuto dargli. Per questo ho scritto davvero solo dopo la sua morte».
Per gli incontri che hai fatto e le persone che hai conosciuto,
sei il risultato di una perfetta società letteraria romana.
«Penso di esserne uno degli ultimi se non l’ultimo testimone. Quello che ha complicato il mio percorso da scrittore non è stata la figura ingombrante di mio padre ma il fatto di avere avuto davanti lo spettro di una società letteraria romana che mi attraeva e mi spaventava. Era il mondo in cui volevo entrare e che avrebbe potuto soffocarmi con i suoi riti».
Quando dici società letteraria romana a chi pensi?
«Penso a una genealogia al cui vertice, arbitrariamente erano stati messi Elsa Morante e Alberto Moravia: il re e la regina».
Tuo padre ha avuto diversi amori. Si è parlato di una relazione con la Morante.
«Dario Bellezza insinuò un legame amoroso. Ma non c’è mai stato nulla tra loro. Si conobbero a Roma nel 1936. Negli anni successivi si videro di frequente. Anche con Giorgio Vigolo. Ma furono soltanto amici».
Come fai ad esserne così sicuro?
«Si davano del lei e non era un modo ipocrita. E poi ho le lettere di Elsa a mio padre».
Prima parlavi della società letteraria romana come di uno spettro. Perché?
«Il suo difetto più grande è stato fingere di credere che Roma, anche dopo la metà degli anni Sessanta, continuasse a essere il centro del mondo. La verità è che non ha prodotto figli ma solo bastardi».
A proposito di figli, il tuo Tommaso è stato al centro di uno scandalo di interviste inventate e piazzate su diversi quotidiani italiani. Come hai vissuto quella storia?
«Ne ho sofferto, soprattutto per lui».
Secondo te perché lo ha fatto?
«Penso per una forma di dissipazione intellettuale. Una provocazione nata da una psicologia complicata. Dopo l’accaduto lo pregai di andare da Mario Trevi, uno psicologo junghiano. Ma si rifiutò. Poi è scomparso. Oggi vive in Israele, con sua moglie e due figli in una sorta di esilio volontario. È stato male e si sta curando».
Vi sentite?
«Non lo vedo da cinque anni. Ogni tanto mi scrive delle e-mail parlandomi di Pasqualina, la mia prima moglie cui era molto legato. Come spesso accade ai ribelli, e lui lo è, sta facendo i conti con quello cui ha rinunciato. Non lo perdono ma lo ammiro».
È un’affermazione enigmatica.
«In quella dissipazione e nel fatto che ne sta pagando le conseguenze c’è la mia ammirazione. Ma chi sono io per perdonare?».
Forse è lui che dovrebbe perdonare te, come tuo padre che non è riuscito a farsi perdonare.
«Mio padre è morto a 66 anni e, come Kafka, ne ho temuto il castigo. Tutta la mia vita letteraria è venuta dopo».
È stata così importante questa vita letteraria?
«Mi chiedi se ne sia valsa la pena. Sono scontento di me come scrittore, ma paradossalmente non sono scontento di me in quanto uomo. Quello che mi è accaduto, anche le prove più terribili, le ho affrontate a testa alta. Invecchio in orgogliosa solitudine. Non ho paura della morte, ma ho il terrore di abbandonare la vita. È strano come mi senta legato a qualcosa che non ho capito mai fino in fondo».