Robinson, 17 febbraio 2019
Il mio giro del mondo sul dollaro
Un consumatore americano entra in un ipermercato Walmart del Texas e compra un apparecchio radio. Ovviamente è made in China. Quel semplice gesto è l’inizio di un viaggio che trasporta dollari in giro per il pianeta. Nella tappa successiva le banconote verdi vengono trasferite dall’azienda cinese alla sua banca centrale; quest’ultima usa dollari per finanziare investimenti nelle risorse naturali della Nigeria. Il paese africano spende la valuta pregiata per acquistare riso dall’India. Che compra petrolio dall’Iraq. Da Baghdad, parte un pagamento per armi made in Russia. Un oligarca russo esporta capitali in Germania, da dove un fondo pensione li piazza a Londra. Un’azienda britannica va a caccia di opportunità sul mercato degli Stati Uniti. Alla fine la banconota verde torna nelle mani del consumatore iniziale: il quale lavora come portiere in un albergo, e se la vede consegnare (restituire?) come mancia. Questo “giro del mondo in 80 giorni” alla Jules Verne, con un pezzo di carta al posto dell’intrepido viaggiatore Phileas Fogg, è l’artificio letterario escogitato dall’economista inglese Dharshini David per raccontare il ruolo della moneta nell’economia globale, svelarne gli arcani, evidenziare i problemi, nel libro Il mondo in un dollaro. Il viaggio di una banconota dal Texas alla Cina, dalla Nigeria all’Iraq (Utet). Non tutti i passaggi da un paese all’altro coinvolgono banconote: a volte si tratta di dollari virtuali, trascritti dal bilancio di un’azienda a una banca e viceversa, valuta elettronica. Non sottovalutiamo però la carta: David rammenta che «i presidenti morti – come vengono chiamate le banconote da un dollaro con la faccia di George Washington – vengono stampati ogni giorno al ritmo di 17 milioni, solo per il taglio da un dollaro; complessivamente ci sono 11,7 miliardi di biglietti verdi nei portafogli, nei bancomat, nelle casse dei negozi; e la metà si trovano al di fuori degli Stati Uniti». David è affascinata dal dollaro per diverse ragioni. «Da bambina, figlia di due viaggiatori (i suoi genitori sono di origini indiane, ndr), mi colpiva vederlo usato in ogni angolo del pianeta, dal Brunei alle Barbados». Poi c’è la sua passione per l’economia, un inizio di carriera universitaria, un lavoro alla City di Londra; infine una vocazione per l’inchiesta e la divulgazione che la porta a scegliere il giornalismo (Bbc, Sky). La sua formazione le ispira qualche digressione storica, il viaggio del dollaro si può anche fare all’indietro nel tempo: «All’origine non fu americano, l’antenato di questa parola è il tallero d’argento usato in Boemia nel XVI secolo. Tradotto in inglese diventa dollaro nel Macbeth di Shakespeare, 1606. I dollari furono usati da spagnoli e portoghesi, i conquistadoresli coniavano con l’argento delle miniere del Messico; da lì agli Stati Uniti, che adottarono il dollaro per disfarsi della sterlina inglese dopo l’indipendenza, e ne fecero l’unica moneta dal 1792».
Il viaggio contemporaneo in cui Dharshini David ci guida, serve a illustrare la circolarità dell’economia mondiale, i flussi di liquidità e finanza che sono il sistema sanguigno, i vasi comunicanti della globalizzazione. «Il dollaro», spiega, «non è una moneta qualsiasi, è anche la faccia della potenza americana e dei suoi interessi. Inoltre è diventato uno dei modi più sicuri per custodire valore; è la valuta di riserva del mondo intero; l’agente della globalizzazione». L’autrice ricorda quante volte abbiamo sentito profetizzare “il declino del dollaro”, magari come auspicio da parte di potenze rivali dell’America. Nessuna di queste profezie si è realizzata, neppure quando è stata la Cina a sostenere l’ascesa del suo renminbi come moneta internazionale. Ma siamo sinceri: chi di noi vorrebbe investire i soldi della pensione in renminbi?
C’è un paradosso evidente, perché da settanta anni in qua la supremazia economica, tecnologica, politica e militare degli Stati Uniti ha subìto una costante erosione. Il divario enorme che separava l’America dall’Europa o dalla Cina sul finire della Seconda guerra mondiale si è ridotto in modo sostanziale. Eppure non esiste moneta in grado di competere con la sua. Il dollaro è uscito tutt’altro che malconcio dallo shock sistemico del 2008. La terapia vincente fu stampar dollari, sia pure tecnicamente elaborata in modo più sofisticato con gli acquisti di bond ( quantitative easing). Stampando dollari l’America ha tirato fuori dalla crisi sé stessa e in parte anche gli altri. È una storia di cui oggi comincia a emergere l’altra faccia: il rischio che la festa finisca male, quando la macchina della liquidità si ferma. Di certo però non siamo passati da un’egemonia monetaria americana a una cinese. Neppure un condominio. “Il dollaro è la nostra moneta ma è il vostro problema”. Quella battuta fu pronunciata nel 1971 da John Connally, segretario al Tesoro Usa, quando l’amministrazione Nixon decise di sganciare il dollaro dalla parità con l’oro e precipitò il mondo in un decennio di iperinflazione, tassi alle stelle e tempeste finanziarie. È una battuta che oggi nessun dirigente americano osa pronunciare, ma che riflette il dilemma in cui si trova la Cina. La terapia d’urto applicata dalla banca centrale americana sotto la guida di Ben Bernanke durante la presidenza Obama fu decisiva e operò una miracolosa guarigione dell’economia globale. In passato l’attenzione si è concentrata soprattutto sugli effetti benefici per l’economia americana. Lo storico dell’economia Adam Tooze nel saggio Lo schianto ha illustrato la dimensione internazionale di quella terapia. La Fed operò come la banca centrale del mondo intero, la sua creazione di liquidità esportò credito e crescita ovunque. La Fed fornì 4.500 miliardi di liquidità a Europa, Asia, America latina. I suoi meccanismi di swap agirono come ciambelle di salvataggio per banche centrali di molti paesi emergenti, dal Brasile al Messico, da Singapore alla Corea del Sud. A dieci anni dalla crisi, uno dei risultati è che il dollaro ha rafforzato la sua centralità: oggi è la valuta- àncora per un numero di paesi che rappresenta il 70 per cento del pil mondiale, mentre nel 2008 si limitava al 60 per cento. Un altro risultato è che gran parte della crescita nei paesi emergenti nell’ultimo decennio è stata finanziata da uno tsunami di crediti in dollari a buon mercato. Il Fmi ha calcolato che 260 miliardi di dollari di investimenti nelle borse dei paesi emergenti si spiegano con gli effetti della politica monetaria espansiva praticata a Washington. Sua maestà il dollaro replica il dominio incontrastato che fu della sterlina, e scalzarlo non è facile. Né dobbiamo augurarci che ciò avvenga finché non abbiamo chiare le idee su come sostituirlo. La storica americana Sheri Berman, autrice di Democracy and Dictatorship in Europe: From the Ancien Régime to the Present Day (Oxford University Press), ci ricorda che le istituzioni monetarie internazionali, più il Piano Marshall, consentirono alla liberaldemocrazia di attecchire in Europa nel dopoguerra, perché finanziarono crescita, benessere, welfare. Ora che i fondamenti di quell’ordine internazionale vacillano, anche lo stato di salute delle liberaldemocrazie è traballante.