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 2019  febbraio 17 Domenica calendario

Noi, le donne del muro col Messico

Le donne chiedono: «Che ore sono?», «Siamo ancora ad agosto?». Altre dicono: «Da quando io e mio figlio siamo rinchiusi qui, ho perso la nozione del tempo». «Mi hanno separata da mio figlio il 9 giugno. Non so quanti giorni siano passati». Come in ogni luogo di prigionia, il tempo scorre con un ritmo tutto suo nel South Texas Family Residential Center di Dilley, il più grande centro di detenzione per famiglie migranti negli Stati Uniti. È gestito dall’Ice ( Immigration and Customs Enforcement, l’agenzia per il controllo delle dogane e dell’immigrazione) e dalla CoreCivic, la società privata di servizi penitenziari incaricata dal Governo federale di gestire quasi il 63 per cento delle prigioni per immigrati negli Stati Uniti. È uno dei tanti centri di detenzione per migranti del complesso carcerario-industriale del paese, in rapida espansione. Gli Stati Uniti sono la nazione con la più grande infrastruttura detentiva per immigrati al mondo: ogni anno ospita fra le 380mila e le 442mila persone, con una quota letti giornaliera di 34mila immigrati. Il Dilley può ospitare fino a 2.400 persone, tutte donne con bambini, in maggioranza originarie di Honduras, El Salvador e Guatemala. Anche se le leggi stabiliscono che un centro di detenzione per bambini “non deve avere al suo interno strutture restrittive rilevanti”, il Dilley è una prigione, anzi è conosciuto come la baby jail, la prigione dei bambini. Non sono ammessi contatti fisici e nonostante detenuti e guardie sappiano che l’acqua della struttura è contaminata, i volontari non sono autorizzati a offrire bottigliette d’acqua. Anche se ogni storia è diversa, le donne di Dilley hanno una cosa in comune: fuggono da contesti di indicibile violenza nei loro paesi d’origine.Nel prefabbricato adibito a parlatorio, i volontari incontrano le donne per prepararle alla loro credible fear interview, il colloquio in cui i funzionari che si occupano di concedere l’asilo valuteranno se il loro timore di tornare nel proprio paese sia oggettivo oppure no. È il primo passo per ottenere la protezione legale e lo status di rifugiato. Ogni mattina c’è un fitto via vai di avvocati volontari, tirocinanti e personale del centro che entrano ed escono dal visitation trailer, mentre le detenute e i loro bambini aspettano in fila su un lato dell’entrata. Le guardie della CoreCivic — a volte con pazienza, altre volte con cattiveria — ricordano di stare in fila in silenzio. I bambini che parlano lingue indigene, anche se hanno addosso targhette con scritto “Parlo mixteco” o “Parlo q’eqchi”, ricevono istruzioni in inglese o in spagnolo, e spesso vengono sgridati se non capiscono. Prepararsi alla


implica vari passaggi. Lo scopo è capire quale tipo di persecuzione ha subìto una donna, cosa teme se sarà costretta a tornare indietro, se ha mai denunciato la situazione alle autorità, perché non può trasferirsi in un’altra zona del suo stesso paese. Alla domanda «Sei mai stata minacciata o picchiata da qualcuno nel tuo paese? » , le donne rispondono quasi immancabilmente: « Sì » . « Chi ti ha minacciata? » . « Membri della banda MS- 13 » ; « Membri della banda Barrio 18 » ; « La polizia » ; « Mio marito » ; « Il mio uomo » ; « Il padre dei miei figli » . «Che cosa ti hanno fatto?». «Mi hanno picchiata»; «Mi ha violentata»; «Diceva che mi avrebbero ammazzata».
«Perché ce l’avevano proprio con te?». «Perché non cedevo alle sue avance»; «Perché mi rifiutavo di nascondere le armi » ; « Perché non ho votato per il partito che mi avevano detto di votare » ; « Per il mio aspetto » . Quando una ragazza diciassettenne e sua madre, salvadoregne, arrivano al colloquio, la ragazza dice: «Io non volevo venire qui. Avevo una bella vita e stavo per diplomarmi, ma ora ho perso l’opportunità di prendere il diploma».
« Perché siete partite? » . « Perché alcuni membri della MS-13 hanno minacciato di uccidermi». «Perché?». Rimane in silenzio, poi racconta che è stata minacciata di morte perché si è rifiutata di uscire con uno della banda e perché non voleva spacciare per loro. Per certi versi i suoi problemi non sono troppo diversi da quelli di altri diciassettenni — droga, relazioni sentimentali — tranne il fatto che può rimetterci la pelle. Quelli della MS- 13 minacciavano di ammazzare lei e la madre se non obbedivano, e tutti sanno che la MS-13 mette in atto le sue minacce. Con sua mamma erano stati espliciti: « Getteremo il corpo di tua figlia in un sacco di plastica». La maggior parte delle donne detenute a Dilley non sospettava di trovare oltre il confine altre violenze, altre minacce e una detenzione a tempo indefinito. Una dice: « Abbiamo attraversato il fiume; avevamo i vestiti di ricambio ma ci hanno lasciate apposta a gelare in cella. Anche i bambini: si sono presi infezioni agli occhi, raffreddore e diarrea » . E un’altra: « Ciò che vedi nei notiziari è vero. Quando i volontari sono arrivati, avevano cartelli con scritto
We love you! Welcome to
America!
e le lacrime agli occhi. Anche le madri e i bambini sull’autobus sono scoppiati a piangere. Non di gioia, ma perché volontari e manifestanti sembravano preoccupati, e questo ci ha spaventato. Nessuno ci ha detto dove andavamo. Poi ci hanno messi qui, non si sa per quanto». Oggi, in America, il diritto d’asilo è sotto assedio. E a prescindere dalle motivazioni più profonde per negare a chi lo richiede un procedimento equo, gli effetti immediati delle politiche attuali sono chiari: aumento dei fondi federali per il dipartimento della Sicurezza nazionale, aumento della sorveglianza alle frontiere, aumento dei detenuti e, ancor più rilevante, crescita dei centri di detenzione per immigrati. La detenzione di persone prive di documenti è una delle industrie più redditizie nell’attività di governo degli Stati Uniti. Le circostanze che portano famiglie senza documenti a emigrare, il fatto di definire l’immigrazione una questione di sicurezza invece che di diritti umani, la criminalizzazione degli immigrati e il business dei centri di detenzione si fondono dando vita allo scenario perfetto per questa reclusione di massa. Resta da vedere fino a che punto sia disposta a spingersi questa amministrazione per rafforzare un complesso carcerario- industriale già spaventosamente grande.
Dopo ventidue giorni a Dilley, una ragazza dice: « Mi sento in gabbia: c’è sempre qualcuno che ti guarda. Ma è un paradiso rispetto alle gabbie in cui ti mettono all’inizio. Lì dormivamo su materassi imbrattati di cacca, pipì e vomito. Non potevamo neanche lavarci i denti». Un’altra aggiunge: «Ho detto loro che ero pronta a firmare per la mia espulsione; non sono una criminale, perché devo essere trattata così? Non mi sono mai sentita così amareggiata. Piango ogni notte». Quando le chiedo se rimpiange di essere venuta qui risponde: «Sì. Preferirei morire con un colpo di pistola nel mio paese che essere uccisa lentamente in questo». 
(Valeria Luiselli, messicana, ha scritto questo testo con Ana Puente Flores, sociologa)