la Repubblica, 17 febbraio 2019
Quell’errore sulla Tav
Sono sempre stato scettico sulla Tav, ma devo essere l’unico scettico che è diventato meno scettico dopo aver letto l’analisi costi benefici, che pure boccia il progetto senza appello. Sia chiaro, al contrario di molti critici ritengo che l’analisi sia tecnicamente ben fatta, da professionisti esperti, seri e preparati, e non ideologici. Quindi non contesto i loro numeri, ma la interpretazione che ne è stata data. L’interpretazione naturale e scontata del documento, data da tutti i politici, tutti i media, tutte le persone che conosco, e da me stesso fino a tre giorni fa, è: secondo gli autori, la Tav non s’ha da fare perché per l’Italia i costi eccedono i benefici di 7 miliardi. Non è così. Anche se non è affatto evidente, una lettura attenta rivela che i costi e i benefici calcolati nell’analisi si riferiscono a tutta l’Europa, non all’Italia. Questo è stato un grave errore: il governo e il parlamento italiani sono responsabili per il contribuente italiano, non per quello europeo; a noi interessano i costi e i benefici italiani. E le conseguenze di questo errore sono di prima grandezza. Vediamo il perché.
Supponiamo che i costi per l’Italia siano la metà dei costi per l’Europa intera, e lo stesso per i benefici; la differenza tra costi e benefici italiani, la grandezza rilevante per noi italiani, sarebbe quindi di 3,5 miliardi invece che di 7. Ma i costi italiani sono probabilmente meno della metà di quelli europei (anche perché l’Europa probabilmente sarà disposta a finanziare una fetta maggiore) mentre i benefici italiani probabilmente superano la metà di quelli europei. Il divario tra costi e benefici italiani si ridurrebbe quindi ulteriormente, da 3,5 a diciamo 2,5 miliardi. A questo punto le penali e le spese di ripristino e di ammodernamento della linea esistente, da affrontare nel caso non si faccia la Tav, diventano fondamentali; e sono tutte a carico dell’Italia. Anche qui c’è enorme incertezza, ma diciamo almeno due miliardi in totale. Il divario tra costi e benefici italiani scende quindi da 2,5 a mezzo miliardo. Poi c’è l’incertezza statistica sulle stime: magari cambiando in modo ragionevole alcune delle centinaia di parametri i costi diminuiscono e i benefici aumentano di mezzo miliardo in totale. Ora siamo alla parità di costi e benefici. Mettiamoci il danno di immagine di fronte all’Europa dal non fare la Tav, e i benefici eccedono i costi. Non è detto che sia così: per esempio la stima dei costi non include i sovracosti quasi certi, che storicamente in questi progetti sono facilmente nell’ordine di decine di punti percentuali. Ma resta il fatto che 7 miliardi non sono la cifra corretta su cui basare una decisione. È curioso che i tanti critici in questi giorni abbiano ignorato questo problema fondamentale, e si siano concentrati su accuse spesso senza fondamento, se non addirittura gratuite. Il documento critica l’idea di spendere 1,5 miliardi per mettere in sicurezza la linea esistente, nel caso non si proceda con la Tav, perché è già più sicura di molte altre: negli ultimi anni ha subito tre incidenti, senza neanche un ferito. Significa questo che gli autori sono insensibili ai lutti provocati dagli incidenti sulle infrastrutture, quali il crollo del ponte Morandi, come è stato loro rimproverato? Esattamente il contrario: stanno dicendo che, proprio perché la vita umana è preziosa, bisogna spendere le risorse per la sicurezza dove servono di più, non sulle infrastrutture già relativamente sicure.
L’argomento più controverso è certamente il trattamento di accise e pedaggi. Se si fa la Tav diminuiscono i pedaggi sulle autostrade e gli introiti dello stato dalle accise sui carburanti. Il documento quantifica queste perdite in 4,5 miliardi, e li aggiunge ai costi. Questo ha scandalizzato molti commentatori: si pagano meno tasse, si inquina di meno, e tutto ciò va a finire sul lato dei costi invece che su quello dei benefici? Non è plausibile che cinque professionisti seri abbiano fatto un errore così pacchiano; ma non un solo commentatore si è sforzato di capire la logica sottostante. L’analisi costi benefici misura di quanto cambiano le risorse utilizzate dalla collettività nel suo complesso per trasportare un container tra Lione e Torino. Le accise sono un costo per il trasportatore ma un guadagno per lo stato, che le gira agli altri cittadini sotto forma di pensioni, stipendi pubblici etc. Dal punto di vista della collettività l’effetto di un cambiamento delle accise è quindi circa nullo. Quando un trasportatore passa dalla strada alla Tav risparmia dieci euro di accise, e questo fa parte del suo beneficio privato calcolato nel modo standard; come abbiamo visto, per arrivare al beneficio totale per la collettività bisogna sottrarre la perdita di dieci euro di introiti dello stato, e quindi di risorse per pensioni e stipendi pubblici. L’effetto è, appunto, nullo, e gli autori hanno fatto la scelta giusta. Una obiezione diversa è che la perdita di accise sia stimata in modo non corretto, ma questo è un altro discorso. Per concludere, una notazione non tecnica: è triste vedere come in una audizione alcuni deputati del Pd abbiano velocemente assimilato e perfezionato il metodo Boschi. L’ex ministra fu accusata gratuitamente dai 5s di interessi finanziari nel caso Banca Etruria perché deteneva 6.700 euro di azioni, da dividere con quattro famigliari. Il professor Ponti, a capo del team che ha redatto l’analisi, è stato accusato di avere interessi finanziari nella vicenda Tav, perché socio di una società di consulenza trasportistica da cui in dieci anni ha ottenuto dividendi per 6.500 euro. Tra le sue nefandezze, la collusione con le società autostradali (che perderebbero pedaggi con la Tav), nonostante una di esse l’abbia querelato per due milioni di euro per aver sostenuto che i pedaggi sono troppo alti.