Avvenire, 17 febbraio 2019
Il tramonto di Akihito l’imperatore pacifista
Il 30 aprile, per la seconda volta dopo quella dell’imperatore Kokaku nel 1817, il Paese del Sol Levante vedrà un’abdicazione ma, senza alcun timore per la successione, potrà salutare la fine di un regno che per la prima volta dalla restaurazione del potere imperiale del 1868 non ha trascinato il Paese in una guerra o non è stato dominato dal militarismo. Non nubi tempestose, quindi, nel futuro cielo del Giappone evocato dall’85enne Akihito («Sono davvero felice di celebrare il nuovo anno con tutti voi sotto questo cielo senza nuvole») ai 90mila sotto il balcone del Palazzo Imperiale il 2 gennaio, quando si è presentato per la sua ultima apparizione pubblica di Capodanno, ma sicuramente non un sereno assoluto.
Nonostante la ragione ufficiale del clamoroso ritiro siano le malferme condizioni di salute, pochi ignorano che un cambio della guardia potrà rendere meno arduo il cammino del governo guidato da Shinzo Abe verso l’erosione delle remore e delle leggi che hanno blindato il pacifismo giapponese in tutto il dopoguerra. Espansionismo cinese, minaccia nordcoreana, braccio di ferro con Mosca e Seul su isole contese e non ultime le ragioni strategiche e le pressioni della lobby della tecnologia bellica danno ampie ragioni a un riarmo che si accompagni alla possibilità di intervenire su fronti esteri se richiesto dagli alleati o in azioni preventive se necessario alla sicurezza dell’arcipelago. Akihito, che non ha mai nascosto le sue preferenze pacifiste e antinucleariste come pure non è mai mancato a fianco della popolazione nei momenti più bui della storia recente, per ascendente e carisma sarebbe stato un ostacolo a scelte anzitutto politiche. Quando l’imperatore si rivolse ai suoi sudditi l’8 agosto 2016 per confermare la volontà di abdicare dopo settimane di voci, il Paese si ritrovò sgomento suo malgrado. Sicuramente nulla di paragonabile allo shock provato dai giapponesi il 15 agosto 1945 quando il padre Hirohito comunicò con termini indiretti la resa agli americani e la contemporanea rinuncia alle proprie prerogative divine, ma certamente sufficiente per compattare tanti attorno a una istituzione che sotto Akihito è diventata simbolo di unità al di là di tutte le tempeste economiche, sociali e politiche dell’ultimo trentennio. Un sovrano che forse per la prima volta nella storia, non ha mai sol- lecitato timore o reverenza divina ma solo profondo rispetto e riconoscenza, piegando spesso le regole dell’Agenzia della Casa imperiale, istituzione che tradizionalmente media tra monarchia e Paese reale, spesso autoreferenziale e accusata di oscurantismo. D’altra parte, la famiglia imperiale sempre meno numerosa, che ha perso suoi esponenti per matrimoni con individui esterni all’aristocrazia e che ha portato la borghesia al sua interno con l’imperatrice Michiko, ha vissuto un’evoluzione e convulsioni che l’hanno resa più vicina alla maggior parte deigiapponesi.
Per comprendere l’importanza di un evento come l’abdicazione, occorre ricordare anzitutto che quella giapponese è la più antica dinastia regnante al mondo, con quasi 27 secoli di successione ininterrotta dal 660 avanti Cristo e con 125 “monarchi celesti” (tenno) nelle cronache. Ciascuno con un proprio nome storico, uno da sovrano e uno assegnato postumo che ricalca l’appellativo dato al periodo di regno dallo stesso imperatore. Se quello precedente di Hirohito è ricordato come Showa (“Chiara armonia”), significativamente, quello di Akihito che sta per concludersi è e sarà per sempre Heisei, “Consolidamento della pace”.
Nell’affascinante commistione che lo caratterizza, in Giappone l’imperatore è capo dello Stato e, nonostante non sia più riconosciuta la sua divinità, resta la principale autorità della religione autoctona, lo shintoismo, di cui officia alcuni rituali annuali. Un ruolo identitario essenziale, quindi, ma gli impegni rituali, come pure i molti di rappresentanza a cui non si è mai sottratto con una significativa partecipa- zione della consorte, hanno accompagnato in Akihito un interesse di cui il padre è stato precursore: quello per la biologia marina. Una passione che ha contribuito a fare del Paese un centro di studi e di iniziative specializzate a cui lui stesso ha fornito un contributo con decine di articoli in pubblicazioni specializzate.
L’ampia “contaminazione” non aristocratica e l’apertura internazionale per studi e permanenza all’estero sono una caratteristica dell’attuale famiglia imperiale. La prima che ha dato un qualche spunto al gossip e che non ha mai ostracizzato i mass media ma da essi ha ricevuto attenzione e rispetto da quando – primo imperatore a sposare una donna non di sangue blu – Akihito convolò a nozze con Michiko Shoda nel 1956. Il loro innamoramento, nato sui campi da tennis che entrambi frequentavano, suscitò un grande interesse e diede uno slancio essenziale alla diffusione di questo sport, ancora oggi molto diffuso in Giappone.
A succedergli sarà il figlio 58enne Naruhito, sposato con Masako Owada, già destinata alla carriera diplomatica. Un matrimonio segnato dalle difficoltà della sposa ad accettare un ruolo che l’ha consegnata a una sostanziale segregazione e dalle pressioni per dare un erede maschio alla dinastia. Una pressione che si è allentata nel 2006, quando al secondogenito di Akihito, il principe Akishino (la cui consorte è pure di famiglia borghese), è nato il figlio destinato a ereditare il Trono del Crisantemo.