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 2019  febbraio 17 Domenica calendario

Intervista al fotografo Don McCullin

Non importa la grandezza dell’artista, la vastità della sua opera: ci sono immagini tanto straordinarie da diventare riferimento quando si parla di quel fotografo. È così per Henri Cartier-Bresson e l’uomo sospeso sull’acqua, per Steve McCurry e la profuga afghana, per Eddie Adams e il vietnamita ucciso con un colpo alla tempia. Vale anche per Don McCullin, 83 anni, primo fotografo a essere onorato in vita con una mostra personale alla Tate Gallery di Londra (fino al 6 maggio). Il marine sotto choc fotografato da McCullin in Vietnam nel 1968 è la foto della sua vita, quella delle copertine dei cataloghi, quella che tutti ricordano, anche quelli che non conoscono il suo nome.
«È strano, perché a me non sembra la mia foto migliore. Neanche tra quelle scattate in tre mesi a Huê, gennaio-marzo 1968. Però è così, mi dicono che Adams odiasse la sua foto dell’uomo colpito alla tempia e so che a McCurry la ragazza afghana sembra solo un’ottima foto, niente di così memorabile. Ma i fotografi non sono buoni giudici del proprio lavoro. Non siamo buoni giudici di niente. Prendiamo Huê: prima ero stato in Congo, avevo fatto la guerra dei sei giorni, e Cipro. Avevo 32 anni. Non sono un pivello, pensavo. Poi ho visto la Cittadella, la fortezza al centro di Huê. Gli americani non si aspettavano la guerriglia urbana. Facevo un po’ il fotografo e un po’ il barelliere. Sangue ovunque. Erano tutti ragazzi». 
L’inferno?
«No, l’inferno è quando sono tornato a Da Nang, in albergo. Ho fatto la doccia, mi sono cambiato. Non capivo più quel che avevo intorno, mi sentivo fuori posto. Mi ero adattato alla Cittadella». 
Con il tempo passa?
«Sì e no. Ci si adatta».
Chi non si adatta finisce come quel marine?
«Al momento non ci avevo fatto caso. Vedo questo ragazzo pietrificato, gli occhi sbarrati. Chiedo al sergente cosa gli è successo e quello dice: “Boh”. Mi inginocchio davanti a lui. Poi mi alzo e passo oltre. Riguardo spesso il negativo. Cinque scatti. Sono identici. Non ha mai mosso un muscolo». 
È il suo capolavoro. 
«Lei cosa vede in quella foto?». 
La privazione dell’umanità. 
«Sa cosa pensavano di lui i suoi commilitoni? Che era un vigliacco. Che poteva farli ammazzare, perché se ne stava lì impalato. Lo disprezzavano ferocemente. In prima linea è così, se uno non può aiutarti a uscirne vivo è uno che può solo farti finire ammazzato. Per un documentario, qualche anno fa, l’abbiamo cercato. Neanche il Pentagono sa chi fosse». 
Lei dopo il Libano, nel 1982, ha abbandonato la fotografia di guerra. Fotografò un edificio sventrato da un missile, una madre la insultò perché là dentro c’era la sua famiglia.
«Non si può andare avanti per sempre. Ho venduto la mia prima foto nel 1958, all’“Observer ”: avevo seguito dei teppisti del mio quartiere. Amo sempre la fotografia. È la mia vita. Il momento nel quale la luce tocca la pellicola – uso ancora la pellicola, sviluppo e stampo a casa mia – è sempre elettrizzante. La differenza è che fotografo paesaggi. Mi rasserena». 
Sua moglie Catherine Fairweather (ex giornalista: si conobbero quando lei gli commissionò un servizio, ndr) dice che «Don è una persona abbastanza equilibrata, normale, pacifica. Gli piace andare a passeggiare al freddo, in inverno, nei campi, a fotografare la luce fioca del crepuscolo sull’acqua. Prende queste scene di bellezza bucolica – mucche, alberi secolari, stagni – e le trasforma in paesaggi di desolazione, devastati dalla guerra».
«Mi piace stampare i paesaggi con il platino, grande contrasto e neri profondissimi. Ma è un procedimento troppo costoso per le mie tasche». 
Ha avuto tre mogli.
«Sono tante». 
Attraverso sessant’anni, però: c’è chi ha fatto di peggio.
«Avrei voluto essere un uomo migliore. Un padre migliore. Adesso è tardi. Ho pensato che quello che facevo aveva uno scopo, potevo far vedere a tante persone quel che succedeva. Ho pensato che la mia famiglia sapeva di essere amata. Anche da lontano. La fotografia non è una missione ma sono un giornalista». 
Il rischio? La preoccupazione della sua famiglia quando era in trasferta? 
«Il rischio ti fa girare l’adrenalina nel sangue. In inglese si dice “prendere una fotografia”, in italiano “fare una fotografia”, ma sono definizioni sbagliate. Le fotografie si prendono solo in prestito, appartengono ai loro soggetti». 
Le donne? 
«Più forti, più intelligenti di noi: le ho sempre guardate. Anche adesso che sono vecchio. Per fortuna loro non mi guardano più. Le fotografo, però: ho appena fotografato Kate Moss. Niente assistenti, makeup, luci: niente. Solo Kate». 
Nella sua autobiografia dedica solo tre pagine al lavoro per Michelangelo Antonioni sul set di «Blow-Up» a Londra. Le immagini scattate dal fotografo (David Hemmings) in realtà sono sue. 
«Ricordo quegli italiani elegantissimi che vennero a trovarmi per offrirmi l’incarico. Ricordo quella giornata al parco, a scattare Vanessa Redgrave da lontano. Antonioni aveva fatto dipingere l’erba, dipingere gli steccati, i vialetti. Non c’era niente di vero. Ricordo che la luce era tanto brillante che usai una pellicola a grana fine». 
Ora scatta paesaggi, ma negli ultimi anni una stilista speciale, Sarah Burton di Alexander McQueen, l’ha chiamata, ripetutamente, per dei reportage sul lavoro della maison londinese. 
«Sarah non ha avuto neanche tempo di piangere, dopo la morte (per suicidio, nel 2010, ndr) del suo amico fraterno McQueen. Ha dovuto lavorare per tenere aperta l’azienda costruita dal suo amico, per tenere in vita il suo sogno e il frutto della sua immaginazione. Sarah è una guerriera. Ha lavorato attraverso il lutto: il lutto è un’espressione d’amore. La ammiro enormemente». 
Che cos’è il coraggio?
«Il coraggio che ho visto in guerra? Una cosa incomprensibile. E assolutamente inutile». 
Che cosa resta del suo lavoro oltre alle 250 immagini della Tate? Il titolo di baronetto? Sir Don McCullin.
«Sarebbe l’orgoglio di mio padre. L’ho visto invalido da quando ero piccolissimo. L’ho visto morire lentamente sotto i miei occhi. Privato di tutto, della sua dignità. È morto quando avevo 14 anni. Non volevo che il suo nome fosse dimenticato. Ecco, c’è un sir McCullin ora. È il nome di mio padre. Mio padre ha un nome importante, adesso». 
Con le sue foto – con la sua vita – sente di aver cambiato qualcosa?
«Le mie foto sono tutte sistemate per bene nel mio archivio, nelle loro buste gialle, sugli scaffali ordinati. Tutti quelli che ci sono dentro sono morti. Morti. Tutti morti».
Non sappiamo i loro nomi, ma possiamo ricordarli. 
«Oh, ma li ricordo io, tutti quanti. Hué, specialmente. Cinquantuno anni fa esatti. Non è passato neanche un minuto, sa? Alla sera spengo le luci, mi stendo sul letto, chiudo gli occhi. E tutti quelli che ho fotografato mi vengono a trovare».