La Lettura, 17 febbraio 2019
I primi due colori di Picasso
La gigantografia di un giovane Picasso accoglie i visitatori alla Fondation Beyeler di Basilea. Lo vediamo nel 1906, a Barcellona, nello studio di un amico: è solo un ragazzo di 25 anni, con un cravattino che spunta dal maglione sotto una giacca di tweed. Davanti a lui, un blocco di disegno e alle spalle alcune piccole riproduzioni di capolavori: La Gioconda di Leonardo, Le tre Grazie di Rubens, La Primavera di Botticelli, ma anche un paio di ritratti fotografici di giovani donne.
La geografia della sua mitologia personale è racchiusa in quelle poche figure, ma probabilmente anche nel volto che non vediamo, perché qui è stato tagliato. È quello di Fernande Olivier, sua prima musa, modella e amante e ha il valore profetico di mettere in luce il rapporto complesso e tormentato che l’artista ha sempre avuto con l’universo femminile. Nello scatto originale Fernande è alla sua destra, ma qui non c’è, cancellata, tagliata, come amate ma azzerate sono state le donne della sua vita. Nell’immagine Picasso guarda il fotografo con quegli occhi magnetici che sembrano divorarti e che, ovviamente, incantavano. Nessun sorriso, solo la consapevolezza assoluta di possedere il Dono: cioè di possedere l’arte di dominare l’Arte. Di essere quel genio che più avanti gli farà dire senza pudore: «Volevo essere un pittore e sono diventato Picasso».
Riportata in una delle grandi sale della Fondazione (e come incipit al catalogo) la frase appare quasi come un monito, che fa da felice contrappunto a una mostra (la più importante, la più complessa, la più costosa della storia della Beyeler) che mette in luce non solo la maturità e la sicurezza espressiva del «giovane Picasso» ma soprattutto ne evidenzia l’attenzione umana nel voler raccontare la disperazione, la miseria, la fame, la stessa energia tragica della morte.
Il «Periodo blu e rosa» è una stagione di soli 6 anni (dal 1901 al 1906) in cui si comprende che se Picasso fosse morto a 25 anni si sarebbe affermato lo stesso come uno dei più grandi artisti del Novecento. In quest’arco di tempo è come se Picasso maturasse la cognizione dell’autentico potere della bellezza, anche quando la bellezza, l’eleganza e l’armonia delle forme, hanno la funzione di raccontare la vita come incrocio di destini crudeli. Ne è esempio un capolavoro assoluto, del 1903, forse il simbolo più alto del periodo blu, Le Vie . In questo dipinto, Picasso riunisce alcuni temi simbolici che toccano ogni esistenza: sofferenza, amore, vita e morte. Una composizione ricca di allegorie che hanno alimentato contrastanti interpretazioni (amor sacro, amor profano, i cicli della vita, una lettura politica sull’oppressione dei lavoratori): un uomo e una donna sono ritratti davanti a una donna che protegge tra le braccia un bimbo. Al centro, si intravvedono degli scorci di quadri, come se il dipinto evocasse l’atelier dell’artista.
Ma la vera chiave di lettura sta probabilmente nel ripensamento: Picasso aveva ideato questo dipinto come un autoritratto. Ma lui modifica la figura maschile (prima è nuda) e interviene non solo sul corpo ma anche sul volto, sostituendo il suo con quello dell’amico poeta e pittore Carles Casagemas, che si era suicidato due anni prima per amore in un caffè di Parigi. Il Periodo Blu nasce proprio da quella tragica morte. È lo stesso Picasso a confessarlo: «Il pensiero che Casagemas fosse morto mi ha portato a dipingere in blu». Il mistero della morte dell’amico più caro, conduce Picasso a un pensiero radicale: dopo quel 17 febbraio 1901, la vita non può più contemplare colore, gioia, ma solo enigma e malinconia.
Questo confine psicologico e mentale lo si coglie nella scrittura della mostra. Scandita attraverso un percorso cronologico, accompagna il visitatore in un viaggio di rivelazione sul mondo più segreto della creazione, sulla pittura come stato mentale. Certo, l’energia di Picasso non è mai trattenuta, compressa, ma al contrario si manifesta come un inarrestabile vulcano in eruzione. Non a caso il primo quadro che apre la mostra è un autoritratto del maggio 1901, che già dal titolo è una perfetta affermazione: Yo Picasso.
Accanto, le altre opere di questo primo periodo che mettono in luce la bohème della sua vita parigina: ritratti di donne voluttuose con grandi cappelli colorati che ci fanno pensare a Toulouse-Lautrec, e poi prostitute incrociate nei caffè di Montmartre, scorci del Moulin Rouge, ma c’è anche la sua prima scultura, una piccola figura d’argilla che sembra ritagliata dai suoi quadri. Sempre donne. Donne però che nel tempo sembrano trasformarsi: da seduttrici e amanti a malinconiche e solitarie figure, fermate al tavolo di un caffè come inBuveuse d’absinthe o come nella sensuale La Gommeuse, espressione gergale che indica le cantanti che a Parigi eseguono canzoni con una dichiarata connotazione sessuale. Il dipinto mostra la figura di una donna nuda, con grandi seni pendenti, allettanti labbra rosse. Ma non c’è eros, tutto parla di disperata solitudine.
Sin dalle prime sale non si può non restare incantati: perché mai, prima di questa mostra, è stato possibile mettere insieme così tante opere di questa stagione, considerate le più preziose della sua produzione, fino ad ora intrasportabili, sparse in collezioni private di tutto il mondo e musei che non volevano privarsene.
Sta qui la natura eccezionale della mostra, anzi, delle due mostre, visto che tutti gli spazi della fondazione sono dedicati al grande artista catalano. Così, mentre la prima parte dedicata al «Periodo blu e rosa» si conclude aprendo uno scorcio sulla nascita del Cubismo, la mostra prosegue rendendo omaggio alla imponente collezione della Fondation Beyeler, racchiusa nella sezione «Panorama».
Ma torniamo al «giovane Picasso»: nel 1904, dopo aver lasciato definitivamente Barcellona per Parigi, si afferma un nuovo orizzonte espressivo, un vero respiro di speranza che scopre nei personaggi del circo: saltimbanchi, acrobati, arlecchini. Vive nella casa-studio Bateau-Lavoir con la sua Fernande, su tutto prevale l’attenzione per la figura, nel disegno del corpo, per le mani e in quegli occhi senza luce, completamente vuoti, neri. Già, tutto è ancora avvolto da un’inquieta malinconia. Ma è un momento di transizione. La tavolozza cambia e si affacciano i colori rosa e ocra.
Il «Periodo rosa» si afferma con capolavori come Acrobate et jeune arlequin del 1905. Opera di straordinaria intensità che verrà condannata come «degenerata» dal regime nazista. Gli anni della fame e delle difficoltà economiche stanno cambiando: nel 1906 il gallerista Ambroise Vollard gli acquista quasi tutte le sue nuove opere. Ciò permette a Picasso e a Fernande di spostarsi in montagna, nel villaggio catalano di Gósol.
Per un vero artista gli amori, i luoghi, le persone, incidono in modo fondamentale sul lavoro: influenzato da una dimensione essenziale, comincia a ritrarre figure primordiali che coniugano elementi arcaici e classici: nasce la sua stagione «primitivista». Le figure diventano scarne, essenziali e poi i nudi femminili: corpi massicci, sproporzionati, sintesi di geometrie che evocano culture africane o dell’Oceania, come Femme nue assise, les jambes croisées, (1906). Che cosa avrà mai visto Picasso per dipingere così?
Passeggiando attraverso le sale non ci si può sottrarre a un’energia invisibile: il grande merito di questa mostra è farci partecipare a un’autentica, sofferta avventura, alla storia di una ribellione. E insieme, al vero potere della pittura. Pittura come epifania: Les Demoiselles d’Avignon, qui si rivelano prima ancora di nascere. Nel 1907 cambieranno l’arte del Novecento. E nel «periodo blu e rosa» assistiamo alla genesi di questa rivoluzione. D’altronde non poteva essere che così, da uno che ripeteva a sé stesso e al mondo: «Volevo essere un pittore e sono diventato Picasso».