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 2019  febbraio 17 Domenica calendario

L’evoluzione naturale non è così perfetta

Nel 1995, in un libro di successo nonostante le sue 700 pagine, L’idea pericolosa di Darwin, il filosofo statunitense Daniel Dennett sostenne che nell’evoluzione il meccanismo di riutilizzo di strutture già esistenti, formatesi per altre funzioni o in sovrappiù, era irrilevante. Tutto è adattamento diretto, il resto sono solo effetti collaterali insignificanti. La selezione naturale è l’unico agente del cambiamento evolutivo ed è un fattore quasi onnipotente: al netto di qualche compromesso, scolpisce prodotti perfetti. Ebbene, nei due decenni successivi la scienza ci ha insegnato proprio il contrario. La cooptazione funzionale, quel «bricolage evolutivo» di cui scriveva il premio Nobel François Jacob, è un fenomeno ubiquo nell’evoluzione, dal Dna alle morfologie. Darwin lo aveva previsto nell’ultima edizione dell’Origine delle specie nel 1872. 
In un saggio del 1981 Dennett scrisse: «L’evoluzione ha progettato gli esseri umani in modo che fossero razionali, che credessero ciò che dovrebbero credere e che desiderassero ciò che dovrebbero desiderare». Sembra di ascoltare l’erede contemporaneo del precettore Pangloss, che nel Candide di Voltaire decanta la provvidenziale funzionalità di ogni cosa nel migliore dei mondi possibili. Peccato che, pochi anni dopo questa affermazione, un profluvio di studi di psicologia e di neuroscienze abbia mostrato l’opposto. Sono gli errori cognitivi, i pregiudizi, i condizionamenti contestuali e la nostra sistematica incapacità di rispettare gli standard di razionalità ad avere una radice evolutiva. 
Discendiamo da animali che dovevano prendere decisioni veloci per riprodursi al momento giusto, accaparrarsi una fonte di cibo incerta, sfuggire ai predatori anticipandone le mosse. Se vuoi cavartela in un contesto del genere, devi imparare a leggere rapidamente gli indizi che ti circondano. Non c’è tempo per ponderare dettagli e probabilità. Devi trovare un compromesso imperfetto tra velocità e correttezza. Qualche volta sbagli, ma meglio eccedere in prudenza che esser morti. Per questo il nostro cervello è una macchina per credenze e superstizioni. Insomma, siamo tutt’altro che «progettati per essere razionali». 

Sono solo due esempi di un fenomeno curioso. Dennett ha dato contributi fondamentali allo studio della coscienza e del libero arbitrio, ma quando scrive di evoluzione non ne azzecca una. La sua idea è che la storia naturale sia un gigantesco algoritmo che, ancorché cieco e inconsapevole, genera progetti ottimali. Ne consegue che per comprendere l’evoluzione di un organismo dovremmo trattarlo come un artefatto e sottoporlo a «ingegneria inversa», cioè scomporlo come si fa con un congegno e cercare di capire, retrospettivamente, a quale domanda progettuale del passato evolutivo un certo ingranaggio è stata la risposta. Gli arti, per dire, sarebbero la migliore soluzione possibile progettata dalla selezione per il problema di spostarsi sulla terraferma. 
Non funziona, perché i tratti fissatisi in una popolazione biologica non sono per forza adattamenti: possono essere conseguenze non adattative di altri cambiamenti o risultato di processi casuali non selettivi. La natura gronda di inutilità, notava Darwin. Inoltre, la funzione attuale di una struttura non coincide sempre con la sua origine storica, perché è stata riutilizzata anche più volte in base al mutare dei contesti ambientali. L’evoluzione non è un banale problem solving e un organismo non è un videoregistratore da smontare. 
L’obiettivo polemico preferito delle torrenziali intemerate di Dennett è sempre stato il paleontologo Stephen J. Gould, reo di aver sfidato l’ortodossia ultra-darwinista proponendone una riforma in chiave pluralista, e accusato di essere niente meno che un fiancheggiatore occulto dei creazionisti. In un libro per altri versi molto utile, Strumenti per pensare (2013), Dennett mette in caricatura il suo avversario dipingendolo come uno spacciatore di trucchi retorici. Gli piace vincere facile, visto che Gould è morto nel 2002 e non può difendersi. 
Intanto però si accumulano scoperte che danno ragione a Gould e torto a Dennett. Le analisi degli alberi di discendenza di moltissimi gruppi di specie confermano che i cambiamenti «punteggiati», cioè nascite di nuove specie in tempi brevi su scala geologica, sono più di un terzo del totale. La rivista «Nature» nel 2014 così titolava un dibattito pro e contro le estensioni della spiegazione evoluzionistica: «La teoria dell’evoluzione ha bisogno di un ripensamento?». Del resto, perché non dovremmo aggiornare un programma di ricerca scientifico alla luce di nuove evidenze? Il fatto che il neodarwinismo evolva è un segno di salute. Solo chi è troppo affezionato a un’inflessibile architettura filosofica, come Dennett, può pensare che sia un’eresia. 
Il caustico filosofo della Tufts University quando scrive di evoluzione commette due errori fondamentali: il senno di poi e l’antropocentrismo. Pensa che l’evoluzione funzioni come la mente di un ingegnere gestionale («ricerca e sviluppo» è la sua metafora preferita) e usa il presente (considerato pressoché inevitabile) per ricostruire un passato che lo giustifichi. È come se l’oritteropo pensasse che Madre Natura doveva per forza portare a esseri con il muso oblungo che adorano le termiti. 
L’ossessione di Dennett per «lo spazio dei progetti» lo mette in una posizione imbarazzante. Come ha notato il suo collega Peter Godfrey-Smith, chi pensa che la creazione di un progetto complesso sia il fulcro della teoria della selezione naturale sta mantenendo lo stesso approccio dei sostenitori dell’Intelligent Design e semplicemente sostituisce la loro soluzione metafisica della questione con una soluzione naturalistica e non intenzionale. Ma la cornice intellettuale resta la stessa. 
La visione di Dennett induce nel lettore errori prospettici, come quello del «progresso locale», cioè dell’incessante miglioramento degli organismi nei loro ambienti. Dai batteri a Bach e ritorno , citando il titolo del libro più recente, ma l’evoluzione non va da un punto (i batteri) a un altro (i presunti geni musicali di Bach), né torna indietro, bensì esplora possibilità contingenti. Quanto alle unità culturali, i «memi», che avrebbero addomesticato i nostri cervelli, è una speculazione finora senza alcun riscontro empirico. Alla fine l’ironico contrappasso di chi vuol essere «più darwiniano di Darwin» è tradire il proprio eroe. Checché ne pensi Dennett, il naturalista di Down House ripeteva sempre che la natura non fa progetti, ma trova espedienti.