Corriere della Sera, 17 febbraio 2019
Trump si dichiara obeso
Undici medici specialisti, quattro ore di visite in un centro militare, sei giorni di attesa dei risultati e alla fine un antipatico verdetto: Donald Trump è «tecnicamente obeso». E ora lo sanno tutti. È stata la Casa Bianca a dire al mondo come sta il suo inquilino, dopo il consueto check-up annuale: col suo metro e novanta «The Donald» si porta in giro un corpo di 110 chili, due in più del 2018. Un aumento lieve ma che lo inserisce, secondo le tabelle dei centri per la prevenzione e il controllo delle malattie, nella categoria degli «obesi», con gli annessi rischi per la salute, dal diabete all’infarto, fino al cancro. Eppure, si legge nella nota del suo medico personale Sean Conley, Trump è «in un buono stato complessivo». Nonostante l’accertata obesità (ne è affetto un americano su 3) e una dieta troppo ricca – mormorano a Washington – di bibite gassate, carne rossa e fritture.
Elettori e detrattori di Trump ne conoscono persino la pressione e il colesterolo («122 milligrammi per decilitro»). Non per legge ma per scelta presidenziale: una forma di trasparenza verso l’opinione pubblica per evitare speculazioni. Che comunque non mancano. E infatti il New York Times ha puntualmente sottolineato le molte omissioni di quel comunicato: a quali esami di preciso si è sottoposto il presidente? Dove sono i risultati esatti? E ha subìto o meno una colonscopia, come invece raccontò Obama? Domande diventate legittime: la visibilità della cartella clinica del presidente (e di chi aspira a diventarlo) da anni è argomento di dibattito comune.
Nel 2016 Trump ha puntato anche su quella. In campagna elettorale insinuò che la sfidante Hillary Clinton, debilitata da una polmonite che la fece quasi svenire a un comizio, «non si regge in piedi per un’ora». Se anche la salute è diventata arma politica, i leader tentano di dominare il flusso delle informazioni: nel 2008 il candidato John McCain, già sopravvissuto a un melanoma, organizzava conferenze stampa di 3 ore piene di aggiornamenti clinici su di sé. «La gente – raccontava George Annas della Boston University alla Cnn — ha il diritto di sapere se un candidato ha motivo di credere che morirà durante il suo incarico». Una novità dopo decenni di malattie (anche gravi) insabbiate per ragion di Stato. Franklin Delano Roosevelt – in sedia a rotelle per la poliomelite – tenne segrete cardiopatia e ipertensione, che secondo molti contribuirono all’emorragia cerebrale che lo uccise poco dopo l’inizio del quarto mandato nel ’45: lo avrebbero votato lo stesso? Persino il giovane John Kennedy soffriva di ipotiroidismo, mal di schiena e morbo di Addison. Non ne fece mai parola: prendeva steroidi, metamfetamine e altre medicine che forse ne condizionarono la lucidità. L’ipertiroidismo colpì invece George Bush padre, e negli Usa ancora si chiedono se questo ebbe un peso durante la Guerra del Golfo nel ridurne concentrazione e memoria. E Ronald Reagan, a cui fu diagnosticato il morbo di Alzheimer dopo la fine del mandato, era davvero sano mentre guidava il Paese? Rimarrà un mistero. Purtroppo o per fortuna: se da una parte c’è il diritto dei cittadini di sapere, dall’altro resiste (a fatica) quello alla privacy.
I primi a perderlo sono stati i manager delle aziende quotate: nel 2011 le rivelazioni sulla salute di Steve Jobs fecero crollare le azioni di Apple, ma il suo ritorno in scena ha contribuito all’epica di quel marchio. La verità, anche se brutta, è meglio dirla. Magari con meno enfasi di Ronny Jackson, ex medico di Trump: un anno fa affermò che «se il presidente avesse mangiato meglio negli ultimi 20 anni, avrebbe potuto vivere fino a 200. È una questione di genetica». O di peso e di politica.