La Stampa, 17 febbraio 2019
L’Italia dei mille bisticci concorde su re Ronaldo
In questa Italia spaccata, di odiatori per principio e critici per mestiere, un solo uomo sembra mettere d’accordo tutti, un papa straniero che non sta in Vaticano (quello, anzi, divide come nessuno prima di lui): si chiama Cristiano Ronaldo e gioca a pallone.
Quanto sia forte il suo potere di attrazione lo si misura in una singola frase dell’uomo medio diretto allo stadio locale per la partita più importante della stagione. Non dice più: «Vado a vedere la Juventus», ma «Vado a vedere Ronaldo». È quel che accade nelle esposizioni con un unico quadro, come La ragazza con l’orecchino di perla. Nelle altre sale potrebbe esserci l’opera completa di Jan Vermeer, non farebbe differenza. Nessuno avrebbe fatto il viaggio per Bologna, unica tappa italiana, e la susseguente fila, se non per «la ragazza». Chiellini e perfino Dybala sono «La lattaia», pregevole, certo, ma da sola non varrebbe lo sforzo. Ronaldo con l’orecchino di perla sì, perché si tratta di un pezzo unico. Non un quadro, in realtà: sono i calciatori qualsiasi a farsi dipingere dai tatuatori, scomparendo in una giungla simbolica che poi li inghiotte davvero. Ronaldo è una scultura. Non un ritratto, ma un autoritratto giacché si è modellato da sé. Capelli, viso e gambe, quelli sono di scuola, o quasi. L’elemento inarrivabile sta nel torso, negli addominali che coltiva con migliaia di esercizi ripetuti ossessivamente ogni mattina al risveglio e ostentati al pubblico dopo un gol di particolare importanza. Tra lui e Leo Messi, il solo a stargli al passo e talvolta superarlo, la differenza fondamentale è in questo: dopo la rete nel recupero che decise il Clasico a favore del suo Barcellona ai danni del Real Madrid di Ronaldo, Messi si tolse la maglia sudata e la mostrò al pubblico, profana ostensione. Ronaldo offre il corpo, Messi la stoffa. La metamorfosi di Leo, da ragnetto a fuoriclasse, è avvenuta dentro quell’armatura di tessuto, unica ed eterna, la 10 blaugrana. La metamorfosi di Cristiano, che ha fatto cucire il 7 a Manchester, Madrid, Torino, si è verificata nel fisico. Per questo i ragazzini di mezzo il mondo, dai campi profughi ai quartieri alti, vogliono la maglia di Messi e quelli dell’altra metà, come il giovane invasore di domenica scorsa a Reggio Emilia, tentano invece di riprodurre il corpo di Ronaldo, realizzando nient’altro che una copia, disconosciuta con uno sberleffo dal maestro.
Ronaldo ha una sua dimensione: altra, extra. L’ha indicata, involontariamente, il telecronista di Sky Sport in occasione del suo gol al Sassuolo, segnato di testa su calcio d’angolo. Ha commentato, stupito: «Non era neppure nel monitor, da dove è arrivato?». Per il telecronista il monitor è la dimensione, lo spazio in cui le cose accadono e gli esseri normali si cimentano: il perimetro del possibile. Ronaldo si manifesta dal suo altrove, extraterritoriale qualunque sia il territorio, e segna. Tutti gli altri per riuscirci si affollano in area, sgomitano, saltano paralleli e scendono divaricati, lui sbuca in solitudine, s’infila, colpisce. Intatto.
Per questo anche chi non sa d’arte si è messo in coda per vedere la ragazza di Vermeer e chi non sa di calcio va a dare comunque un’occhiata a Ronaldo: magari qualcosa filtra, un senso, una diversità, un altro modo di stare nel rettangolo chiamato cornice o campo: qualcosa percepibile anche da chi non abbia tenuto il conto di gol e assist. Quel qualcosa è una differenza così evidente da risultare inspiegabile, una questione di luce, di posizione, di tempo. Di marketing? Anche, ma diffuso e spontaneo. Non c’è più bisogno di attivarsi: la soggezione è universale. Se la Juventus emette bond tutti li chiamano subito Ronaldo bond. Se vince, ma Ronaldo sbaglia un rigore, si racconta la storia del portiere che l’ha parato, che avendo 40 anni pensava di essere ormai conosciuto. Come accade una volta ogni mezzo secolo circa è la squadra, perfino la società, a diventare sineddoche del campione.
Tra le numerose coalizioni «anti» che a ogni livello reggono la vivacità del dibattito in Italia, quella anti-juventina è la più agguerrita. Eppure Ronaldo viene risparmiato (per ora). I suoi problemi extra-calcistici non hanno generato forti reazioni. D’altronde non sono i peccati di natura fiscale o sessuale a causare la riprovazione sociale a queste latitudini. Si potrebbe anzi pensare di scambiare i pensionati italiani che se ne vanno in Portogallo per evitare le tasse con i portoghesi che le abbiano evitate e cerchino riparo.
Anche Ronaldo, come chiunque, ha un lato oscuro e, come ogni calciatore, gli va incontro quando lascia il campo, avviandosi al tunnel, allo spogliatoio, a quel che ci sarà dopo, nell’intervallo tra una partita e l’altra, nel tempo indecifrabile in cui partite per lui non ce ne saranno più. Già ora rivela una bulimia esistenziale, denunciata da pletore di orologi di marche diverse e figli di madri differenti. Un sovraeccesso, ma organizzato, a differenza di altri, quindi compatibile con Torino, come lo era stato con Manchester e Madrid e mai avrebbe potuto essere con Napoli, Londra, Barcellona. Se sia compatibile con la vita senza la gloria, con l’ammirazione che si riserva a una statua definitivamente collocata in una piazza bagnata dal sole nel luogo d’origine lo dirà il futuro e il futuro nessuno lo può ascoltare.
Nel presente Ronaldo deve soltanto prepararsi all’attitudine italiana, pronta a revocare ogni patente per qualsiasi infrazione alle aspettative. E dunque lo attende un circuito che passa due volte per uno stadio di Madrid che non era il suo, ma l’altro: quello dell’Atletico. Ci giocherà mercoledì prossimo, nel primo ottavo di finale e, se tutto gli dovesse andar bene, il primo giugno nella finalissima. Se vincerà, avrà tutta la luce per sé. In caso contrario, non si illuda: verrà abbattuto dal piedistallo e denigrato come la più futile delle illusioni, sarà la corona di latta che non basta a fare una regina e ogni passato splendore verrà relegato nell’ombra.