La Stampa, 17 febbraio 2019
Addio a Li Rui, l’ex segretario di Mao
Già segretario personale di Mao Zedong negli Anni 50, poi punto di riferimento per gli intellettuali liberali in Cina e una delle voci più critiche all’interno del Partito Comunista: all’età di 101 anni Li Rui è morto ieri in un ospedale di Pechino. Classe 1917, figura autorevole e rispettata nel pantheon dei grandi vecchi del partito comunista, ma anche una personalità che negli ultimi quarant’anni non ha mai smesso di invocare la riforma politica in Cina e messo in guardia contro i rischi del culto della personalità. Con articoli, interviste e innumerevoli lettere aperte, Li Rui è rimasto fino alla fine una delle poche voci apertamente critiche anche nella Cina di Xi Jinping.
Mentre l’anno scorso il leader della Repubblica Popolare aboliva il vincolo di due mandati per la carica di presidente, Li continuava a promuovere misure per limitare il potere dei funzionari pubblici, un sistema giudiziario indipendente, libertà di stampa e di parola. «Un Paese come la Cina ha prodotto persone come Mao Zedong e ora vede la nascita di Xi Jinping», diceva lo scorso marzo in un’intervista al quotidiano Ming Pao di Hong Kong. La biografia di Li Rui sembra incarnare la speranza e il disincanto di un’intera generazione.
La carriera
Li nasce nella provincia meridionale dello Hunan solo una manciata di anni dopo la caduta della dinastia Qing, mentre la Cina è dilaniata da signori della guerra e potenze straniere. Studente d’ingegneria all’Università di Wuhan, nella metà degli Anni 30 partecipa al movimento di protesta per l’annessione al Giappone di parti del territorio cinese. Contro l’autoritarismo del regime del Kuomintang e spinto dall’ideale di democrazia che sembrava incarnare la giovane forza politica, nel 1937 si iscrive al partito comunista. Dopo circa un decennio dalla fondazione della Repubblica Popolare, nel 1958 Li Rui viene scelto da Mao come uno dei suoi segretari politici personali. L’accesso all’entourage del Grande Timoniere dura poco: solo un anno dopo, nel corso della Conferenza di Lushan, Li critica la politica del Grande Balzo in Avanti, unendosi alle voci più moderate del partito comunista che chiedono a Mao di rivedere una politica che sta affamando il Paese e provocando la morte di decine di milioni di contadini. «Mao non dava alcun valore alla vita umana, la morte degli altri non significava nulla per lui», ricorderà Li alcuni anni più tardi.
Le critiche al leader
Le critiche a Mao gli costano l’accusa di cospirazione e Li Rui viene mandato in un campo di lavoro non lontano dal confine con l’Urss, dove rischia la morte per fame. Come esponente della corrente moderata del Partito, gli anni della Rivoluzione Culturale li trascorre tra l’isolamento nel carcere di Qincheng a Nord di Pechino e l’esilio in montagna. È solo dopo la morte di Mao e il lancio della stagione della riforma e dell’aperta voluta da Deng Xiaoping che Li Rui viene riabilitato.
Lo spirito democratico
Anche dopo la tragedia della Tiananmen del 1989, Li Rui è tra i pochi nel partito comunista che continuano a parlare in sostegno della democrazia, del costituzionalismo e dello stato di diritto. «Il mio sogno per la Cina è il sogno del governo costituzionale», scriveva nel 2013 evocando lo slogan del sogno cinese di Xi Jinping. Dopo l’arresto e la condanna a 11 anni di carcere dell’attivista e premio Nobel per la Pace Liu Xiaobo, Li si fa promotore insieme ad altri 23 veterani del Partito di una lettera aperta in cui si chiede libertà di stampa, di parola e la fine della censura sui media. È stato tra i fondatori della rivista liberale Yanhuang Chunqiu, dalle cui pagine si sono affrontati alcuni degli episodi più oscuri della storia della Cina e del partito comunista.
La controinformazione
«Vedeva come un dovere - dice a La Stampa il sinologo Jean Philippe Béja - far conoscere alle nuove generazioni alcune pagine della storia della Repubblica Popolare che sono negate dalla storiografia ufficiale». Tra queste anche le responsabilità di Mao nella carestia che seguì il Grande Balzo in Avanti. Li Rui non è però mai stato un dissidente: è rimasto fino alla fine un membro del partito comunista, cui aveva aderito per la prima volta oltre ottant’anni prima. «Aveva un’idea romantica del comunismo», ricorda Béja. «Era convinto che rimanendo all’interno del Partito potesse far entrare nelle stanze del potere di Pechino le idee che vivevano nella società cinese».