Il Sole 24 Ore, 17 febbraio 2019
Borges: che orrore i miei colleghi!
Ho incontrato molte persone da due miei vecchi amici che verso la fine del secolo scorso vivevano in un appartamento di fronte alla Fontana dei Fiumi in piazza Navona. È un lungo elenco che, rischiando di diventare un banale name dropping, mi costringe a limitarmi oggi a una persona sola, Jorge Luis Borges, che vidi da loro un paio di volte verso il 1980. Già allora avevo imparato ad evitare di conoscere personaggi famosi perché spesso ero restato deluso dalla realtà. Le due serate che passai con Borges non si dimostrarono un’eccezione alla regola. Borges arrivò, quasi cieco (ma non so perché dava l’impressione di simulare), le mani in avanti con un’aria sacerdotale quasi volesse sembrare un profeta, o Omero. Non parlava ma dettava, la faccia al di là del tempo e delle circostanze, niente risposte o reazioni. Tenne una lezione su certi oscuri poeti inglesi. Temo che persino Mario Praz, invitato anche lui, si annoiasse, soprattutto perché le due domande da lui poste rimasero inevase. Per finire Borges si mise a declamare prima in inglese poi in gaelico, lingue che suonavano malissimo nella sua dizione ispanica. Insomma, una presenza che restava tediosa nella sua costante affettazione. Praz, che accompagnai a casa a piedi, era dello stesso avviso e mi disse che i discorsi sembravano tolti da un manuale divulgativo e recitati in tono apocalittico. Ma perché avrebbe dovuto essere altrimenti? Un artista deve dare il meglio di sé nella sua arte. Con gli anni capisco meglio quanto disse Silvina Ocampo secondo la quale Borges amava, pur vedendo ancora bene, fingersi cieco anticipando la sua sorte.
Purtroppo non posso avere un’opinione sul doppio specchio che Borges mi apparve allora. Ho provato a leggere le settecento pagine della edizione minore del volume di Adolfo Bioy Casares, Borges (Barcellona, 2011), una lettura lenta ma meno terribile di quel che avrei creduto quando ho iniziato quel breviario biblico. Va avanti, nel bene e nel male, dal 1931 alla morte del protagonista nel 1986. Notte dopo notte Adolfito, come veniva chiamato, trascrive come un apostolo le conversazioni intercorse tra lui stesso, allievo divino, il Cristo Borges e la santa Silvina: el trío infernal, come venivano chiamati. Quel che abbiamo però è una versione rioplatense delle Tre Parche che tagliano filo a filo la vita e le opere di ogni scrittore, da Beowulf a Ernesto Sabato. Cito a caso: Pablo Neruda viene definito un bruto, pessimo allievo di Lorca, che a sua volta è quello che scrive poesie andaluse e gitane e gli horribles poemas di Poeta en Nueva York; Baudelaire, merde pour lui; John Keats: le sue lettere sono pessime così come le sue poesie; Valéry è più secco di un mattone... non aveva alcuna facilità, fece tutto quasi uccidendosi... non ha slancio, nessuna ispirazione... non si sa nemmeno se ha letto quello di cui parla. Borges odia infiniti autori e opere ma comunque qualche eletto si salva nel suo giardino dove i sentieri non si biforcano mai. Odia molto Baudelaire, accetta Mallarmé e ama soltanto Verlaine: detesta Ortega y Gasset e quando è costretto a dir bene su qualcuno lo fa a denti stretti. Non una buona parola per la Generación del 27 in Spagna (Juan Ramón, Guillén, Lorca...). Rafael Alberti è un arido pagliaccio, ma la sua bête noire resta Gerardo Diego, anche perché aveva dovuto dividere con a lui, ex aequo, il Nobel spagnolo, il Premio Cervantes nel 1980. C’è un aneddoto su un incontro casuale a Madrid: «Borges, son Gerardo». Borges non risponde e Gerardo insiste: «Sono Gerardo Diego». E Borges: «È Gerardo o è Diego?» Lo spirito non gli manca ma è sempre un insulto ermetico.
Il rapporto fra Borges e l’ombra di Goethe è continuo ma sempre contraddittorio. Il demiurgo argentino critica con sarcasmo gli esperimenti sulla luce del grande uomo di Weimar affermando che la luce è più chiara di tutti i colori e che è assurdo studiarla in una stanza oscura. Borges afferma che Goethe gli interessa sempre meno dicendo che si occupa di troppi argomenti e come filosofo lo delude sempre. Ma Goethe resta il grande mago che affascina tutti: basta leggere qui e là le teorie artistiche del padre della storia dell’arte moderna, Berenson, o, per essere ancor più vicini ai misteri della luce cui si accenna, rileggere l’inizio di Lotte a Weimar di Thomas Mann: Goethe si sveglia all’arrivo del giorno e parla a lungo dei fenomeni che intravede, una meravigliosa poesia silenziosa inventata dal grande romanziere del Novecento. Borges invece aggiunge che le conversazioni fra Goethe ed Eckermann sono il dialogo fra due imbecilli. Verrebbe voglia di chiedere ai mani di Borges se le parole e i giudizi scambiati fra lui e Bioy siano stati profondi come l’eternità. Ma l’antipatia è più forte di lui: asserisce che sarebbe stato disastroso, se mai ciò fosse avvenuto, essere il collega universitario di Goethe: terribile, terribile si sa come la maggior parte dei tedeschi, come lo stesso Goethe, non abbia alcun senso dello humour.
Ma che gran poeta Goethe, persino il Rio della Plata lo acclama: Las Elegias romanas lo mejor... Segue subito il contrattacco: Faust, il maggior bluff della storia. L’uomo era come era: oggi piacerebbe meno di allora, risulterebbe ancora più politically incorrect. Eccolo: «i negri negli Stati Uniti sono un problema vero e non fittizio. C’è qualcosa evidente nei negri che ci respinge e per questo gli argentini vedono i brasiliani come scimmie». Nel libro Tre anni a Buenos Aires 1975-1978, che meriterebbe di essere letto più attentamente, Bernardino Osio cita un paio di frasettine borgesiane da antologia. Quando lo scrittore andò a salutare il presidente Videla gli augurò di restare molti anni col governo «formato da militari, gentiluomini e persone decenti» definendo con poche chiare parole l’epoca dei desaparecidos. Osio assicura che queste idee pubbliche gli costarono la candidatura al Nobel.
Borges si pentì amaramente e alla fine della sua vita, solo, a Ginevra, lontano persino da Silvina e da Bioy, con a fianco soltanto Maria Kodana, non era sicuro di nulla, nemmeno di Shakespeare che diceva di amare quanto Dante: «Otello non mi piace. Tutti siamo stati gelosi... non va bene che Amleto sia così riflessivo e ciononostante creda nei fantasmi... il meglio è Macbeth». Forse potremmo finire dicendo ciò che si disse su un mio famoso amico «il sait tout et rien d’autre». Eppure egli fu uno dei grandi scrittori del Novecento e poche volte la lingua spagnola è stata così ben servita come dalle sue mani.