Il Sole 24 Ore, 17 febbraio 2019
Allarme globale sui 1.200 miliardi di subprime 2.0
«Il forte sviluppo dei leveraged loans desta una certa preoccupazione tra le autorità». Parlava di finanziamenti alle imprese italiane, in un convegno alla Bocconi. Pochi giorni fa. Poi, all’improvviso, il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha puntato il dito contro i «leveraged loans». Poche parole, taglienti, che hanno toccato nel vivo una delle maggiori preoccupazioni degli investitori e delle autorità di Vigilanza globali: cioè il boom, soprattutto negli Stati Uniti, di questi particolari crediti super-speculativi. I «leveraged loans» («finanziamenti a leva») sono infatti prestiti erogati da investitori di vario tipo alle imprese già molto indebitate. Finanziamenti che poi vengono rivenduti sul mercato come titoli negoziabili e che spesso vengono “impacchettati”, con ulteriore leva sopra, in cartolarizzazioni chiamate Clo (Collateralized loans obligations). Insomma: una speculazione al quadrato. Che preoccupa molti, non solo Visco. Dal Fondo Monetario al Financial Stability Board. E che non può che destare un certo senso di deja vù.
Il motivo per cui le Autorità hanno messo questo mercato nei radar è la sua veloce crescita Oltreoceano. Il mercato dei «leveraged loans» negli Usa è infatti raddoppiato dal 2010 arrivando a 1.200 miliardi di dollari, ai quali vanno sommati i 267 miliardi di euro (dato di Credit Suisse) dell’Europa. E la metà di questi è “impacchettata” in Clo, che negli Usa valgono 650 miliardi di dollari e in Europa 182 miliardi di euro. Una crescita che desta timori in tutto il mondo. Molti temono che i «leveraged loans» possano diventare prima o poi i mutui subprime 2.0. La domanda che assilla Autorità di Vigilanza evoca infatti antichi fantasmi: ora che l’economia globale rallenta, che i tassi d’interesse sono più elevati (negli Usa) e che gli utili delle aziende frenano, c’è il rischio che i «leveraged loans» e i «Clo» diventino la miccia di una nuova crisi?
Il boom americano
La crescita dei «leveraged loans» negli ultimi 10 anni è dovuta a due fattori. Da un lato la politica monetaria ultra-espansiva delle banche centrali, fatta di tassi a zero e liquidità in abbondanza, ha spinto gli investitori ad alzare sempre più l’asticella dei rischi per cercare rendimenti appetibili: questo li ha spinti ad esplorare mercati sempre più di “frontiera”. Dall’altro la valanga normativa che ha colpito le banche ha ridotto la loro capacità di erogare credito alle imprese: questo ha favorito la nascita di un mercato del credito non bancario. I «leveraged loans» sono la faccia più hard di questo mercato.
«Fino a una decina di anni fa le banche prestavano alle aziende in maniera sistematica e strutturale – spiega Andrea Pescatori, a.d. di Ver Capital che gestisce fondi specializzati in leveraged loans -. Oggi molto meno». Così, con una sorta di evoluzione darwiniana, gli investitori finanziari si sono piano piano sostituiti alle banche tradizionali nell’erogare credito alle imprese medio-grandi. Anche a quelle poco affidabili, sottoscrivendo le loro obbligazioni high yield oppure i loro «leveraged loans». Questo ha permesso a molte aziende di raccogliere fondi a tassi per loro sempre più convenienti. Fino a creare un mercato enorme.
I rischi
I potenziali problemi sono almeno due. Il primo sta nel deterioramento della qualità dei «leveraged loans». Dato che gli investitori erano famelici (e lo sono tutt’ora) le imprese ne hanno approfittato per anni, emettendo «leveraged loans» con rendimenti sempre più bassi e con garanzie contrattuali (i cosiddetti «covenant») sempre più risicate. Secondo Moody’s, se i «leveraged loans» con poche garanzie per gli investitori erano solo il 25% dell’intero mercato nel 2007, ora sono l’80%. «Negli ultimi 2-3 anni rendimenti e covenant si sono compressi molto – osserva Luca Peviani, che con la sua P&G investe nel mondo delle cartolarizzazioni -. A nostro avviso questo mercato è in bolla».
Il secondo problema è rappresentato dalla bassa liquidità di questi strumenti. Tradotto: sono facili da comprare, ma più difficili da vendere. Come i bond high yield. Questo è pericoloso, soprattutto negli Usa dove a comprare «leveraged loans» sono anche i normalissimi fondi comuni d’investimento e gli Etf. Per loro l’illiquidità è un problema serio: dato che i fondi garantiscono ai clienti l’uscita quotidiana dall’investimento, se hanno in portafoglio troppi titoli illiquidi rischiano di trovarsi in “trappola” in caso di riscatti in massa. Perché devono rimborsare i clienti, ma non riescono a vendere i «loans» abbastanza in fretta. In Europa, invece, i fondi “normali” (Ucits) non possono investire in questo mercato. Ma il problema sta anche nel fatto che a investire nei finanziamenti a leva sono soprattutto i Clo, cioè le cartolarizzazioni che assorbono metà del mercato. E che investono – a differenza dei fondi – facendo leva. In media di 9-10 volte.
Le differenze coi mutui Usa
Detto questo, c’è anche chi getta acqua sul fuoco delle preoccupazioni, «Nonostante i rischi indiscutibili – scrivono gli economisti di Commerzbank – si tratta di strumenti meno inclini ad accumulare perdite rispetto ai mutui subprime del 2007. Inoltre il sistema finanziario è oggi meno vulnerabile di allora». Anche Pescatori pensa che – soprattutto in Europa – le preoccupazioni possano essere eccessive: «Innanzitutto i leveraged loans sono di tipo senior e secured -. osserva -. Le emissioni sono medio-grandi, dunque non così illiquide come sembra. Hanno rating pubblico e informative su base mensile». La speranza è che paragonarli ai mutui subprime sia solo suggestione. Il pericolo, però, è che se scoppiasse una crisi su questo settore, la turbolenza potrebbe colpire subito i mercati più simili: bond high yield e obbligazioni in generale.