il Fatto Quotidiano, 17 febbraio 2019
Vita stupefacente del Chapo
Il capo della mafia messicana, Joaquín Guzmán Loera, non è solo il latitante più famoso della giustizia. Ha anche una fulgida carriera come disegnatore di tunnel, è scampato all’assassinio grazie all’aiuto involontario di un alto prelato.
Ha acquisito fama di onnipresente ed è diventato amico delle star di Hollywood per giocarsi alla fine a New York quella che sembra la sua ultima mano prima di passare al ritiro in qualche carcere statunitense di massima sicurezza: fare in modo che il processo contro di lui aiuti i figli del suo socio Ismael Zambada Garcia, detto El Mayo a gestire la transizione del potere nel mondo dei narco, ancora più instabile di quello della politica.
Contro ogni pronostico, poco più di 70 anni dopo la nascita nel paese sperduto di La Tuna, su una remota catena montuosa nel nord del Messico, Joaquin Guzman Loera ha trovato la notorietà nell’inverno di Brooklyn, dove è stato processato e ritenuto colpevole di una decina di reati relativi all’uso di armi da fuoco, riciclaggio di denaro sporco e narcotraffico.
Buona parte dell’esistenza di quest’uomo che non ha neanche terminato le elementari, è sempre ruotata intorno ad avvenimenti improbabili. A partire dal soprannome che si porta dietro colui che è considerato il capo supremo del narcotraffico nel mondo, El Chapo, che nella sua regione natale, Sinaloa, è sinonimo di “piccolo”.
Oltre a essere un criminale, questo successore del capo colombiano Pablo Escobar nell’immaginario – parte mitologico, parte reale – del narcotraffico latinoamericano è stato un copioso produttore di fantasie in un Paese come il Messico in cui la realtà riesce a essere più immaginifica della finzione. Tutto inizia quando viene inviato a trafficare droga a Mexicali. Sono gli anni 80, Ronald Regan lancia la crociata contro le droghe, ed El Chapo riprende una vecchia strategia dei contrabbandieri cinesi degli inizi del secolo precedente che utilizzavano un esteso sistema di piccoli passaggi sotterranei della città di frontiera per far passere oppio e alcol tra Messico e Stati Uniti, noto come La Chinesca. Questa idea trasforma Guzmán Loera in un innovatore del commercio del quale si era occupato fin da piccolo.
Ma il suo volano per la fama arriva intorno al 1993, quando i suoi rivali, i fratelli Arellano Felix, nella foga di assassinarlo, uccidono per sbaglio Juan Jesus Posadas Ocampo, un influente cardinale della Chiesa cattolica che scambiano per El Chapo, il quale resta illeso.
Qualche mese dopo quello strano incidente, Guzmán Loera, arrestato in Guatemala, finì per esser rimandato in Messico senza alcun tramite formale tra un Paese e l’altro. Questo atto di misterioso trasferimento non è il risultato di una magia, ma di un vecchio trucco messicano (e a quanto pare anche guatemalteco): la corruzione.
Nel gennaio 2001, quando il Messico ancora stava celebrando l’inaugurazione dell’alternanza politica con la vittoria di un partito diverso dal Pri alle elezioni presidenziali, El Chapo rovina la festa democratica occupando 8 colonne di giornale con la notizia della sua fuga dal carcere di massima sicurezza del Puente Grande, a Jalisco, nascosto in un carrello della lavanderia, secondo la versione ufficiale.
Da questo momento in poi la sua leggenda inizia a prendere corpo: a Oaxaca o Città Juarez raccontano di averlo visto a pranzo in questo o quel ristorante, o a una serata danzante a Tijuana o circondato da donne in un bar di Cancún. Più passano i giorni senza che lo catturino, più intorno alla sua immagine si rafforza un alone di onnipresenza che finisce per farne un personaggio a cui ispirarsi, ammirato più di qualsiasi senatore della Repubblica.
Eppure il personaggio andava lasciando al suo passaggio una scia di sangue e distruzione corroborata dalle politiche populiste in materia penale, come quella che lanciò l’ex presidente Felipe Calderón sotto l’altisonante nome di “Guerra del narco”, con l’obiettivo di riuscire a conquistarsi un po’ di governabilità durante il turbolento avvio del suo governo.
La suddetta scia di dolore segna anche la famiglia del Chapo, dopo che suo fratello Arturo viene assassinato nel carcere penale di Almoloya e suo figlio Edgar in una piazza del centro di Culiacán. È proprio al funerale del giovane di 22 anni che sono stato sul punto di conoscere di persona il capo, il quale coprì di 50 mila fiori il luogo in cui stavano vegliando suo figlio. L’avvenimento finì in un pezzo che pubblicai su Milenio Diario e che dopo venne ripreso dal cantante Lupillo Rivera per comporre una canzone raffinata.
Passarono vari anni prima che Guzmán Loera fosse finalmente catturato. Addirittura il Pri era già ritornato alla presidenza. E neanche la sua detenzione fu scevra di particolari che sembrano inverosimili ma non lo sono, come quello che ore prima fosse riuscito a svignarsela dalle autorità attraverso un tunnel nascosto nel bagno della sua casa di Culiacan, che univa la residenza con il sistema fognario della città; o quello che per entrare nell’hotel di Mazatlan dove alla fine fu acciuffato, aveva indossato una parrucca e si era seduto su una sedia a rotelle per farsi passare per un anziano malato.
Dopo la sua cattura, sembrava che la storia del fuggitivo finalmente si fosse conclusa. Ma l’anno dopo, El Chapo offre un nuovo colpo di scena scappando dal carcere penale di massima sicurezza di Almoloya per un tunnel costruito sotto la sua cella, in cui lo aspettava una moto modificata per poter percorrere velocemente il chilometro e mezzo di distanza sotterranea che lo separava dalla sua libertà. Inoltre, la tempistica della sua fuga non poteva esser più azzeccata (né casuale): accadeva nel momento in cui l’allora presidente Enrique Peña Nieto e quasi l’intero gabinetto decollavano per Parigi.
Dopo questo episodio sembra che El Chapo avesse raggiunto il limite massimo di produzione di situazioni inverosimili, quando compaiono sulla scena l’attore Sean Penn e l’attrice Kate del Castillo, che rivelano di aver passato una notte con lui per mettere a punto i dettagli per un film ispirato alla sua vita.
Non passa molto tempo che Guzmán Loera viene catturato di nuovo e, contro ogni pronostico, finisce per essere estradato negli Stati Uniti proprio il giorno prima che Donald Trump assuma la presidenza, come se si trattasse di una specie di obolo diplomatico per il politico che ci vuole fare pagare per il muro che El Chapo e il suo seguito hanno attraversato sotto terra per tanti anni.
Una volta a New York, Guzmán Loera ha continuato ad alimentare il suo mito, realizzando un patto stipulato con il suo socio per il controllo del Cartello di Sinaloa: Ismael Zambada, El Mayo, per permettere che la collaborazione della famiglia Zambada con le autorità statunitensi nel processo contro di lui, aiutino Serafin e Vicente, figli di Zambada, a ridurre le pendenze con la giustizia. Chiaro, tutto in cambio dell’aiuto del Mayo ai figli di Guzmán Loera affinché possano continuare a gestire buona parte del commercio a cui diede vita suo padre in Messico.
Un altro impegno di Zambada è quello di produrre il film su El Chapo, di cui addirittura è già stato scritto il copione, anche se, è chiaro – vista la vita del protagonista – il finale della storia può ancora subire variazioni.