il Giornale, 17 febbraio 2019
Anticipazione dal nuovo libro di Camillo Langone sui vini italiani
Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo ampi stralci del nuovo libro di Camillo Langone «Dei miei vini estremi Un ebbro viaggio in Italia» (Marsilio, pagg. 128, euro 15; in libreria dal 21 febbraio).
A Bassano del Grappa ammiro i vigneti dipinti foglia per foglia da Manuel Pablo Pace sullo sfondo dei suoi ritratti di grandi prosecchisti. Non diciamolo a Nardini ma a me la grappa causa acidità di stomaco. Tutte le grappe, beninteso, non soltanto la sua. In verità tutti i distillati, anche il whisky, la vodka, il rum, l’oggi onnipresente gin... Un bel giorno finalmente ho capito che i superalcolici mi superdanneggiavano, ho regalato le bottiglie e ho lasciato scadere Omeprazolo e Maalox. Il bicarbonato ormai mi serve esclusivamente per intenerire i ceci. Ho tenuto solo una Vecchia Romagna per innaffiare le salsicce sul fuoco.
Pace vive a Campese, frazione di Bassano nota a pochi italianisti per essere stata l’ultima residenza di Teofilo Folengo, il poeta maccheronico. Folengo oltre che di cibo abbastanza ovviamente parlava anche di vino, peccato che i vini del Cinquecento non ricordino i vini del XXI secolo nemmeno dal punto di vista onomastico. Cosa saranno mai il Mangiaguerra e la Vernaccia di Volta Mantovana?
Invece i vini dei committenti di Pace sono universalmente noti, sono i Prosecchi ricavati dalle vigne di Glera (nome ufficiale del vitigno) che verdeggiano sui vocati rilievi della Marca gioiosa fra i quali la mitica collina di Cartizze. Paolo Bisol è stato immortalato dall’eccellente pittore proprio davanti alla sua vigna di Cartizze dove sono state raccolte (un libro intitolato Herbarium lo testimonia) ben centosedici specie di erbe.
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Sotto i suoi baffi a manubrio Pace è un veneto felice, un tipo comissiano, un hipster arcadico. Tutte le volte che lo vengo a trovare, dopo la visita allo studio luminosissimo situato all’ultimo piano, un secolo fa essiccatoio di tabacco, si finisce con lo stappare le bottiglie che ho portato io o le bottiglie che ha in casa lui. Perlopiù bottiglie venete, ci mancherebbe.
Bevo sempre anche quando vado da Giuliano Sale, nella meno ridente periferia milanese. Sale è pittore sardo e sardonico che non esegue ritratti bensì perfetti assemblaggi di elementi della storia dell’arte o della sua biografia visiva: nei suoi quadri più grandi una donna nuda, per quanto stilizzata, compare sempre, così come non manca mai da bere. Un titolo su tutti? Still Life with Ass and Good Wine, olio su tela del 2018. «Donne, bottiglie e bicchieri, il massimo piacere» mi scrive, e non ho nessuna intenzione di smentirlo.
Enrico Robusti ha fatto in tempo a conoscere il leggendario Sordo, oste ovviamente duro d’orecchi, nei mattini di fogone laggiù nei settanta. Mi racconta che nella storica bettola parmigiana c’erano all’epoca un paio di tavoli occupati da studenti in fuga da scuola e tutti gli altri da vecchi giocatori di carte. Sono curioso di sapere se corrispondono al vero certe antiche voci sulla presenza del gatto in menù. «No», risponde l’autore dei quadri più carnivoristi della pittura italiana contemporanea, «non veniva servito gatto in umido», o almeno lui non se ne accorse mai: al posto del felino c’erano piattoni di pesto di cavallo, divorati dagli spazzini a fine turno, col cucchiaio. Non si usavano molto le forchette, dal Sordo. E nemmeno i bicchieri: il Lambrusco veniva servito in scodella e a parte il particolare pittoresco, da quadro di Annibale Carracci, ricorda Robusti che era cattivissimo.
Non avevo dubbi, fino all’inizio dei novanta il Lambrusco medio era un dispiacere e quello basso, quello da poco prezzo, da bettola, del tutto imbevibile, puzzolente quando contadino, bruciante quando industriale. Spesso pure dolciastro, vuoi per imperizia, per incapacità di gestire la fermentazione, vuoi per malizia, per coprire di zucchero le magagne. Non per nulla, pur essendo nato e cresciuto in Emilia, la mia formazione vinicola è stata sangiovesista ovvero tendenzialmente romagnola. E pensare che oggi considero il Lambrusco il vino migliore del mondo e il Sangiovese, nelle sue innumerevoli varianti, un problema difficile da risolvere. Perché nel frattempo in Romagna e in Toscana il vino si è fermato o magari è andato nella direzione sbagliata, proprio mentre il Lambrusco viveva un incredibile Rinascimento anzi un Nascimento, visto che mai prima de I Salici di Monte delle Vigne era esistito un Lambrusco Maestri così secco, e mai prima del Lambrusco del Fondatore un Sorbara rifermentato in bottiglia così gradevole al naso.
Robusti mi ha dedicato uno dei suoi ritratti più belli, arricchito da uno dei suoi titoli (lui che della pittura italiana è il titolista massimo) più formidabili: San Brizio epatoprotettore, veglia sulle mie vie biliari mentre preparo questi quotidiani arrostini allo spiedo. La tela che troneggia nella mia cucina mi ritrae nel gesto di cuocere carni alla griglia circondato da ciò che maggiormente mi rappresenta e amo: libri, Madonne, salumi appesi, bottiglie di Lambrusco...
Una di quelle che stappa nel suo studio di strada Felice Cavallotti quando, è un nostro rito parmigiano, mi invita per vedere l’ultimo quadro, ancora fresco di olio. L’abbinamento è perfetto perché la pittura straemiliana di Robusti, ricca di bolliti sorvegliati con cerimoniale attenzione, luganeghe volanti, teste di porco appese, maialetti sventrati, prosciutti penzolanti, brodi in cui insieme agli anolini galleggiano occhi di grasso, pollastre tirate per il collo, faraone sodomizzate in occasione della farcitura, conigli infilzati, cotechini sobbollenti e poi zamponi sacroprofani, allusive creste di gallo, salami affettati con filosofico impegno, rane fritte succhiate in comitiva, di vino straemiliano assolutamente necessita.
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Parlo troppo di Lambrusco? Avete ragione, adesso compenso con Ercole Pignatelli, nei cui onirici paesaggi salentini spesso si stagliano filari che saranno di Primitivo o Negramaro. Ha dipinto anche l’etichetta di un rosso di Claudio Quarta, il Sud del Sud, e credo sia una citazione di Carmelo Bene perché viene prodotto negli stessi luoghi di chi coniò la formula del «Sud del Sud dei santi».
Nel suo studio milanese affollato di ricordi remoti e quadri freschissimi, il vecchio pittore leccese mi conferma che «il grappolo d’uva è il mio simbolo personale, come la stella per Mirò». Mi ci ha accompagnato il figlio Luca, uno dei più quotati artisti italiani viventi, autore pure lui di alcune etichette però valtellinesi, per la cantina La Spia (non il nome di una brutta persona ma di un magnifico cru, piantato nei pressi del costone roccioso sopra Sondrio dal quale un tempo si avvistavano i nemici).
«Non condivido l’estetica tardo-romantica che vuole l’artista nella soffitta dove piove dentro» mi dice Pignatelli junior, e in effetti lo so molto a suo agio nella Top 500 Contemporary Artists di Artprice.com, gotha dell’arte contemporanea secondo aste e investitori. Con lui ho mangiato in buoni ristoranti, ho bevuto, oltre ai rossi della Spia, ottimi Barbareschi, e ho viaggiato in Jaguar. Forse non molto estremo, ma certo molto edonistico.
Un altro pugliese è Giovanni Gasparro, campione dell’arte sacra, lontano dal dionisismo sia in pittura che a pranzo (bevitore molto moderato, quando mangiamo insieme lui si versa un bicchiere e io il resto della bottiglia). Tuttavia nel 2016 ha firmato un capolavoro assolutamente in tema: L’illuso. C’è un vecchio signore che al cenone di Capodanno armeggia con una bottiglia di champagne. Si capisce che gli è costata parecchio e che in essa sono racchiuse eccessive speranze, sia legate al vino che all’anno nuovo. Il signore non dev’essere una cima eppure, maestria di Gasparro, gli si legge sul volto un turbamento: forse l’enotecaro mi ha gabbato, forse l’anno prossimo non sarà così sereno.
Sugli spumanti e in particolare sugli champagne (lo champagne è uno spumante, metterselo in testa) aleggia il sospetto della truffa. Se vogliamo andarci più piano, del cattivo rapporto qualità/prezzo. Contro lo champagne si possono leggere Kingsley Amis, Gianni Brera, Alexander von Schönburg, Mario Soldati, oppure le parigine eleganti e dunque antichampagniste Anne Berest, Caroline de Maigret, Audrey Diwan, Sophie Mas, autrici del delizioso Come essere una parigina. Ovunque tu sia. Sennò, più velocemente, si può ammirare Gasparro.
Finora ho citato pittori italiani, artisti coi quali ho avuto l’onore e il piacere di bere vino: con Terry Rodgers purtroppo non è mai accaduto. Il campione dell’arte profana, maestro dell’orgia elegante ed etilica, vive a Washington. E a me non piace allontanarmi da Enotria, anche perché, mi hanno raccontato, bevono bottiglie terribili laggiù in America, vini in barrique come da noi nei novanta. Le magnifiche debosciate di Rodgers sembrano passarsela comunque benissimo, in ambienti lussuosi esibiscono corpi magri, giovani, lisci, impreziositi da collane, collari, bracciali e mutandine minime, e fumano e bevono e guardano e si guardano e si fanno guardare, e siccome i quadri sono grandi e sono affollati è difficile capire se contengono più capezzoli o più bicchieri. Troppa grazia, tanto di tutto.