Il Messaggero, 17 febbraio 2019
Nascita e degenerazione degli emoji
Nel 1881, sul settimanale satirico americano Puck, appaiono quattro faccine. Esprimono gioia e malinconia, indifferenza e stupore, e sono fra le antenate delle emoticon. Il 24 febbraio 2016 Facebook introduce la possibilità di indicare il proprio stato emotivo, in alternativa a mi piace (like), con cinque diverse risposte (reactions): un cuoricino (love) e la faccina sorridente (ahah) e sorpresa (wow), piangente (sigh) e contrariata (grr). Il 3 novembre 2015 Twitter si era sbarazzato della stellina proprio con il cuoricino di apprezzamento, e vent’anni prima la compagnia telefonica giapponese NTT DoCoMo aveva introdotto lo stesso simbolo nel dispositivo di un modello di cercapersone: il Pocket Bell.
A inventare gli emoji (1999) è stato un giovane dipendente della stessa azienda del Sol Levante, Shigetaka Kurita. Ispirato dai manga e dai kanji, i sinogrammi importati dal giapponese, Kurita aveva inizialmente pensato di creare un set di faccine che contemplassero l’intero repertorio delle espressioni umane. Originariamente in bianco e nero, si erano poi colorate di rosso, lilla, arancione, blu reale e verde erba. Fra i loro precursori c’era anche lo smiley, un cerchio giallo con due puntini per gli occhi e una linea curva (concava) per la bocca, atteggiata a sorriso e con due pieghe ai lati. L’aveva lanciato nel 1962, per una promozione, una radio newyorkese (WMCA). Il sorriso era solo ancora un po’ storto, e le pieghe ancora non c’erano. Lo smiley come lo conosciamo oggi sarebbe nato l’anno dopo.
IL MUSEO
Nel 2016 i 176 emoji ideati e realizzati da Kurita fanno il loro ingresso al Museum of Modern Art di New York. Nello stesso anno l’Unicode Consortium, l’associazione internazionale di aziende, nata nel 1991, incaricata di assegnare un codice, per il trattamento informatico dei testi, a ogni nuovo carattere, simbolo, ideogramma, approva 72 nuove icone (fra una carota e un cetriolo, un gorilla e un pipistrello, un pugno e due dita incrociate, un fiore appassito e una donna incinta), che si aggiungono alle 1.601 già esistenti. Nel 2017 ne rilascia altre 56 (zombie, ravioli, teste di giraffe, noci di cocco, faccine che vomitano, madri che allattano), e l’anno dopo 70: il mango e la lattuga, il pappagallo e l’aragosta, la bussola e la calamita, un rotolo di carta igienica e uno scarpone da trekking, la bandiera dei pirati e il simbolo dell’infinito. Le ultime nuove dal fronte? Fra le 59 nuove emoji che saranno lanciate sul mercato nel 2019 c’è un po’ di tutto: il bradipo e il fenicottero; il mate e il falafel; gli arti meccanici e una goccia di sangue (ideale per indicare il mestruo); ciechi col bastone e disabili sulla sedia a rotelle; la faccina sbadigliante e due persone di identico sesso o diverso colore della pelle che si tengono per mano. A comandare il gioco, sempre più, le politiche inclusive e il politically correct.
LA SCRITTURA
Negli ultimi anni si sono moltiplicati anche gli esempi di letteratura visiva in emoji. Il più raffinato è italiano. È Emoji Pinocchio (2017), un esperimento di traduzione figurativa dei primi 15 capitoli dell’opera di Collodi in un modello grammaticale elementare, arricchito dalla presenza di emoji complesse che sono il risultato della somma di emoji più semplici: bottega ne combina due (casa + attrezzi), per colpa ne servono tre (uomo + donna + mela). Francesca Chiusaroli, docente all’Università di Macerata, è fra i responsabili del progetto. Non è affatto preoccupata per l’impatto della rivoluzione emotica sul futuro della scrittura tradizionale. «Anche se la prorompente diffusione dell’interazione attraverso gli strumenti digitali ha rivoluzionato le nostre abitudini scrittorie – dichiara – possiamo stare tranquilli. Il sistema grafico delle nostre lingue nazionali non è in questione, né tantomeno l’alfabeto». Nessun rischio, insomma, che l’italiano si cinesizzi o nipponizzi. Per Derrick de Kerckhove, che ha lavorato a lungo con Marshall McLuhan, «la sostituzione di un’espressione linguistica con un emoji non è solo una perdita di sfumature, ma anche una perdita di linguaggio, e tuttavia lingue come il cinese sono il frutto di una cultura ancestrale, col suo relativo immaginario mentale. Non vedo un futuro analogo per gli emoji».
Gli fa eco Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca: «Le emoji continuano a essere semplici strumenti di appoggio al messaggio testuale, collocati in posizione strategica d’inizio e fine frase, spesso per correggerne il senso o per ammiccare all’interlocutore. Di qui a immaginarne l’evoluzione verso modelli ideografici passa una bella differenza».
Anche le condizioni generali di salute della nostra lingua lascerebbero ben sperare. «La recente polemica (pur pretestuosa) su scendere il cane, – continua Marazzini – mostra un desiderio d’ordine che ricorda i grandi secoli normativi dell’italiano, il Cinquecento e l’Ottocento». Di un po’ d’ordine, anche fuori dalle questioni linguistiche, sentiamo in effetti un disperato bisogno.