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 2019  febbraio 16 Sabato calendario

Sulle assoluzioni per il delitto di Sana

 In Italia probabilmente li avrebbero condannati senza troppi patemi, ma non è un complimento per nessuno, né per il sistema penale italiano né per quello – figurarsi – pachistano. Su espressioni come «prova» o «prova provata» o «oltre ogni ragionevole dubbio» si sono scritti libri e girati film: ma solo per concludere che il garantismo più rigoroso appartiene a due categorie di sistemi penali: quelli dei paesi anglosassoni o quelli di chi vuol salvare degli imputati a tutti i costi. E ci siamo, perché è quello che è successo nel nord-est del Pakistan dove il tribunale di Gujrat ha assolto tutti gli undici imputati per l’omicidio di Sana Cheema, la ragazza pakistana uccisa il 18 aprile scorso prima di rientrare a Brescia, doveva viveva. Ammazzata – questa era l’accusa, e con ogni probabilità è anche la verità – perché voleva sposare il suo fidanzato italiano anziché piegarsi a un matrimonio combinato con un parente. Gli imputati erano il padre, la madre e diversi altri familiari, ma secondo il giudice non c’erano prove sufficienti o testimoni dell’omicidio. Questo dicono i giornali locali. Poi leggete la storia e giudicate voi, e sappiate che se doveste confonderla con altre storie capitate in questi anni – più o meno identiche – siete giustificati. Sana Cheema, ragazza di 25 anni, aveva iniziato a lavorare a Milano ma viveva a Brescia dove aveva studiato e dove aveva vissuto con la sua famiglia, che aveva preso la cittadinanza italiana ma poi si era trasferita in Germania. Lei era ben inserita e aveva incontrato un ragazzo pure lui di origini pachistane (ma che la famiglia non conosceva) con cui si era fidanzata e conviveva, addirittura coltivando sogni di nozze. Il progetto era quello di trasferirsi insieme, pure loro, in Germania. Tutto abbastanza normale. Gli amici di Sana sapevano solo che la famiglia era contraria al matrimonio, questo in un contesto – il bresciano – dove la comunità pachistana conta 12mila persone. BREVE VACANZA La scena successiva è già un incubo: nella primavera scorsa gli stessi amici, su internet, si accorgono che i profili Facebook e Instagram di Sana sono scomparsi; poi il peggio: vedono un video ambientato in Pakistan, nel distretto di Gujrat dove Sana era nata, con i funerali della loro amica. Loro sanno solo che era tornata nel Paese d’origine per una breve vacanza, come faceva di tanto in tanto nel distretto di Gujrat, in un piccolo villaggio vicino a Mangowal. Dal video si capisce che la famiglia accenna a un incidente datato 18 aprile e che Sana è stata seppellita in fretta e furia. Gli amici però danno l’allarme, la storia rimbalza sui giornali italiani e, grazie a queste proteste, le autorità pakistane sono costrette ad aprire un’indagine e soprattutto a chiedere la riesumazione del corpo per fare un’autopsia. «UN INCIDENTE» La fanno, con comodo, ma qualcuno interviene per manometterla. Il 31 maggio, infatti, vengono arrestati un vice ispettore di polizia ed un dipendente dell’Agenzia di Scienze forensi per aver ricevuto una tangente per modificare l’esame, peraltro senza riuscirvi: un tizio, Muhammad Naveed, aveva offerto 600.000 rupie (quasi 4.500 euro) perché la morte di Sana fosse attribuita «a cause naturali». Invece l’esito risulta ufficialmente inequivocabile: non solo lei risulta morta per strangolamento, ma qualcuno le ha pure rotto l’osso del collo. La famiglia aveva detto: un incidente. Il padre aveva anche presentato un certificato medico dal quale risultava che Sana pochi giorni prima era stata ricoverata perché aveva la pressione bassa. Ma, di fronte agli esiti dell’autopsia, ecco che il padre, Ghulam Mustafa, classico pakistano coi baffi, confessa praticamente subito: dice che l’ha uccisa lui, e che si è fatto aiutare da uno dei figli maschi (Adnan, 31 anni) per strangolarla, al punto da romperle l’osso del collo. La ragione è quella che tutti immaginano: lei si opponeva a un matrimonio combinato con un parente e voleva sposare un italiano, benché pachistano d’origine. Agli atti finisce anche un foulard con cui Sana sarebbe stata strangolata, e che la madre ha riconosciuto. A quel punto il padre, reo confesso, viene messo agli arresti assieme al figlio e al fratello (zio di Sana) Mazhar Iqbal: pare che il delitto d’onore sia avvenuto il giorno prima della ripartenza della ragazza per l’Italia. Le indagini ipotizzano un ruolo connivente anche della madre e di una zia, che appunto risultano indagate. Ma ecco, colpo di scena: il padre ritratta tutto. È tutto chiaro, ma ritratta, e lo fa anche in un’intervista a Repubblica: «Se il referto dei medici legali dice che Sana aveva l’osso del collo rotto, è perché deve aver battuto la testa contro il bordo del letto o il divano… se le cose sono andate così è per il volere di Allah». Forse anche Allah era di famiglia. Forse, ormai, aveva preso la cittadinanza italiana anche lui. IL CASO DI HINA Questa alla fine è la versione che i rigorosi giudici islamici hanno finto di bersi. Dopo di che, trattenuta a stento la revulsione dello stomaco, e restando nel bresciano, torna spontaneo il parallelo con il caso di Hina Saleem, altra ragazza pachistana uccisa nell’agosto del 2006 a Gardone perché ritenuta «troppo occidentale». Non interessa ricostruire tutta la storia, ma notare una differenza strategica: i familiari di Sana, per farla fuori, hanno atteso di ritrovarsi in Pakistan con la giustizia pakistana: e infatti se la sono cavata. In Italia invece diedero 30 anni al padre e a due cognati di Hina (più due anni e otto mesi allo zio, che aveva aiutato a seppellire il cadavere in giardino) e il padre non ha ritrattato niente, ma probabilmente non sarebbe servito. Un’altra differenza, pure interessante, è che, diversamente dal caso di Sana, l’unità familiare in quel caso non resse. Disse la madre: «La colpa di quanto accaduto è di mio marito e di nessun altro, non voglio sapere più nulla di lui e non lo perdono». Per il resto, tutto identico: fu un delitto d’onore di matrice tribale contro una ragazza che conviveva col fidanzato italiano.