Tuttolibri, 16 febbraio 2019
Fukuyama, la Storia non è finita
È possibile cercare il senso della storia che stiamo vivendo proprio nelle parole di chi questa storia aveva dato per finita e il presente non lo aveva affatto previsto? Sorprendentemente sì. Il politologo americano Francis Fukuyama è rimasto fin troppo a lungo inchiodato dalla cancellazione di un punto interrogativo, quello sparito nel passaggio da una sua ricerca a un suo libro di successo: La fine della storia (?), appunto. Gli attacchi alle torri gemelle e al Pentagono del 2001 e la crisi economica del 2008 hanno determinato una «recessione democratica» con esiti che neppure i suoi colleghi si erano aspettati. E nel cercare di capire che cosa stia accadendo lui è, a tratti, più lucido di altri. Lo dimostra il suo ultimo saggio, Identità.
Non menziona affatto l’Italia, eppure le sue riflessioni la riguardano. Per questo può essere un utile esercizio trasporre alcuni suoi punti sulla nostra mappa: uniteli e qualcosa apparirà.
Tre sono le parole chiave: una greca (thumos), una che considereremo nella traduzione italiana (dignità), una inglese (self).
Con la prima viene spiegato l’impulso che induce alla scelta nel voto. L’uomo può farsi guidare dalla ragione, dall’appetito o da una terza spinta, di carattere più emotivo. L’errore degli sconfitti è stato pensare che la politica possa essere razionale, che le scelte possano considerare il lungo periodo e, soprattutto, divorziare da sentimenti forti quali l’identità nazionale. E l’errore degli analisti, secondo Fukuyama, è ridurre le motivazioni alternative agli appetiti di base. Tradotto: sostenere che in Italia governa chi ha promesso meno tasse e un reddito senza sudore. Il che è vero, ma non basta, perché trascura l’area emotiva dell’elettorato, quella che ha avanzato una domanda espressa con la seconda parola chiave: dignità.
Sarà un caso (o Casaleggio jr. si sarà documentato) se il decreto bandiera del ministro Di Maio è stato chiamato proprio «dignità»? La richiesta di dignità, o rispetto, è il fulcro di ogni rivendicazione. Invocarla significa trascinare dietro di sé la massa composta da chi si sente trascurato. Attenzione: non da chi «è», ma da chi «si sente» svalutato. Fa una gran differenza. La stessa che esiste tra la sicurezza nei dati reali e la percezione che se ne ha. All’elettore razionale puoi proporre un lungo percorso, fatto anche di sacrifici, per arrivare a un domani migliore. A quello affamato: ottanta euro o uno sgravio fiscale subito. A quello emotivo una cosa senza prezzo: il suo riconoscimento. «Uno vale uno». «Dimmi la tua opinione e diventerà la nostra linea».
Stigmatizzare l’insipienza di premier e ministri di statura condominiale si scontra con l’entusiasmo popolare di chi ha visto trasformare il mito americano dell’eccellenza che permette di sfondare a chiunque ne abbia la stoffa nel neo-mito italiano che permette di sfondare a chiunque. Ma fin qui la domanda è di pari dignità («isotimia»). Il passo successivo è la rivendicazione di una superiore dignità («megalotimia»). Funziona? «America first», «Prima gli italiani», e guardate i risultati nell’urna e nei sondaggi. La politica della dignità si affianca o cede il passo a quella del rancore, fondata sul tentativo di (più che cancellare) vendicare le diseguaglianze patite. È lì che la sfera emotiva può tracimare nell’invocazione di supremazia. Ben poco conta che questa idea di un grande passato sia una nostalgia senza riferimento reale. È l’età dell’oro percepita, prima dell’attuale età del ferro, altrettanto percepita.
Di quali diseguaglianze, infatti, stiamo parlando? A chi si rivolge questo appello? La parola chiave per rispondere è self: il piccolo mondo nuovissimo abitato da se stessi. Ognuno è prigioniero della propria individuale esperienza come del proprio profilo Instagram, in cui continua ossessivamente a pubblicare storie di cui è protagonista. Il punto non sono più le grandi diseguaglianze sociali, ma le piccole esperienze patite. Non sono i diritti civili, ma gli immigrati che ti scavalcano in graduatoria. La classe svantaggiata, il gruppo emarginato sei, semplicemente, tu. La tua identità è la tua dignità. Il tuo rancore è verso chiunque non la riconosca.
Per Fukuyama questa politica seduce un terzo secco dell’elettorato (a cui aggiungere un’altra bella fetta, almeno di pari entità, attratta da benefici fiscali, condoni, sussidi). E allora, come potrà mai finire questa storia? Esiste un diverso possibile finale, anche stavolta? A leggerlo (e scriverlo) adesso pare un’utopia: ma quel che Fukuyama propone è il recupero di un concetto meno frammentato di identità, più comprensivo e nobile, una sfumata linea d’orizzonte dove prende il nome di umanità.