La Stampa, 16 febbraio 2019
Intervista a Rupert Everett su gay e discriminazioni
Della famiglia aristocratica ha ereditato i tratti eleganti, il collo da giraffa, il broncio leggero e quel tocco terribilmente snob che, unito al carattere ribelle, lo ha reso magnifica preda di moda, cinema e tv.
Oggi, alla soglia dei 60 anni, Rupert James Hector Everett, l’ex- ragazzo scontroso che, ai tempi di Another country e di Ballando con uno sconosciuto, concedeva interviste senza nascondere noia e imbarazzo, è un uomo pronto a svelarsi, sciogliendo anche quel nodo profondo che riguarda la decisione di rivelare la propria omosessualità. Un passo che, professionalmente, gli ha causato non pochi inciampi, ma che adesso gli regala una maturità combattiva: «Trump vuole ridefinire i generi sostenendo che l’unico tipo di famiglia possibile sia quello costituto da un uomo, una donna e i loro figli, il che vuol dire annientare tutte le conquiste ottenute dal movimento transgender. Ma non mi meraviglio, spinte simili sono molto presenti nell’Est europeo, in Irlanda del Nord, in Gran Bretagna, in Italia. È come se si stesse tornando indietro agli Anni 30, stiamo vivendo una fase pericolosa, in tutti i settori».
È diventato regista per raccontare, inThe Happy Prince, la fase più tragica della vita di Oscar Wilde: la condanna per omosessualità, la detenzione, l’esclusione dalla vita sociale. Che cosa è cambiato da allora?
«Abbiamo fatto un grande cammino, ma l’omofobia è ancora molto radicata, gli obiettivi da raggiungere sono tanti, bisogna essere vigili, stare attenti a quello che succede».
Nell’industria del cinema, rispetto alla tematica gay, è cambiato qualcosa?
«Il punto di fondo è rimasto lo stesso. Gli eterosessuali possono interpretare ruoli di gay e, anzi, quando lo fanno vengono definiti coraggiosi. Il contrario, invece, non è possibile, e questo è molto frustrante. Significa che una certa mentalità è ancora diffusa, anche quando non raggiunge i livelli della fobia. Credo che tutti dovrebbero poter fare ogni ruolo. Per esempio mi ha commosso il modo in cui Michael Douglas ha recitato in Dietro i candelabri nei panni del pianista gay Liberace, ho apprezzato la cura dei particolari».
Che cosa le ha insegnato il suo debutto alla regia?
«Soprattutto che il grosso del lavoro avviene prima delle riprese, e riguarda la scelta delle persone con cui girare, quelle che ti aiuteranno a trasformare il tuo sogno in realtà. All’inizio della mia carrera ho avuto la fortuna di incontrare giganti come Danilo Donati e Piero Tosi, da loro ho appreso l’importanza dei dettagli di una trama. Finalmente ho potuto mettere in pratica quell’insegnamento, e adesso ho una gran voglia di tornare dietro la macchina da presa».
Ha già un progetto?
«Sì, sto lavorando a un soggetto ispirato al mio libro autobiografico, Bucce di banana, in particolare al racconto di un viaggio a Parigi che volevo fare quando avevo 17 anni».
Dal 4 marzo sarà su Rai1 nella serie tratta dalNome della rosae diretta da Giacomo Battiato. Che tipo di esperienza è stata?
«Abbiamo girato a Cinecittà, penso che la forma della serie tv sia il modo migliore per rendere il senso di un libro così intenso. Sicuramente migliore del film. Per me è stata una grande opportunità poter passare da Oscar Wilde al ruolo dell’Inquisitore Bernardo Gui praticamente, nello stesso anno. Due personaggi diametralmente opposti».
Come è cambiato, nel tempo, il suo rapporto con il mondo dello spettacolo?
«Mi piace sia recitare sia dirigere, ma certo il mondo dello show-business può essere molto crudele, anti-gay, anti-donne, ma soprattutto anti-età, nel senso che, a 60 anni, tutto diventa difficile».
In che senso?
«Oggi si comunica solo via mail, ho l’impressione che questo abbia reso i rapporti più brutali, si è creato un ambiente senza regole in cui può succedere qualunque cosa, in cui ogni comportamento è ammesso. Tutti sono distratti, il virtuale impedisce le relazioni vere. Sono troppo vecchio per adeguarmi a questo».
Se dovesse indicare un titolo, il suo film più importante, quale sceglierebbe?
«Ogni film è un’avventura, e quella che ho vissuto girando con Francesco Rosi Cronaca di una morte annunciata è stata irripetibile. E poi ho amato recitare in Dellamorte Dellamore di Michele Soavi, il migliore adattamento da un fumetto che abbia mai visto realizzare al cinema, un lavoro artigianale infinitamente superiore a quelli che si fanno negli Usa».