La Stampa, 16 febbraio 2019
Essere un Giuda
Alle sante celebrazioni dei settant’anni di 1984 di George Orwell, uno dei capolavori del Novecento, è forse il caso di aggiungere un’ammirata considerazione per la figlia di Tom Parsons. Tom è un condomino del protagonista, Winston Smith, e un giorno gli racconta fiero che ha combinato quel diavoletto di piccina: va in gita a Berkhamstead con la classe e convince due amichette a pedinare un tizio ambiguo; gli stanno alle calcagna un paio d’ore, e infine lo consegnano alla polizia. L’aspetto straordinario, dice Tom, è che la creatura ha sette anni e, chiede, sai da che è stata attratta? Dalle scarpe del tizio: non le aveva mai viste, scarpe da spia straniera. Orwell c’era andato vicino, ma non sapeva che l’umanità era già un passo oltre, con gli eroici bambini che in Urss tradivano i genitori ladri di una patata per non tradire l’idea comunista. Certo che ne abbiamo fatta di strada dai tempi di Giuda. Quello raccontato da Amos Oz non ha bisogno dei trenta denari, è ricco di suo, ha bisogno di Cristo in croce per vederlo scendere, sarà il miracolo ultimo e definitivo, la verità bacerà tutti e l’umanità sarà salva. Ecco perché Giuda si suicida, perché ha perso Dio. Che differenza fra la delazione colma d’amore e di tragedia di Giuda e la delazione priva di implicazioni morali e di tornaconto, gelida, perfetta della figlia di Parsons. Viene in mente (deriva cronachistica) il sottosegretario a cinque stelle Stefano Buffagni che incita a denunciare i vicini sospettati di incassare senza diritto il reddito di cittadinanza, magari per un paio di scarpe equivoche. Una cosa che a Giuda ripugnerebbe.