«Avevo visto il film di Mike Nichols, bellissimo, e molto fantasioso, anche difficile. Il libro è un capolavoro sul concetto di guerra in generale. La cosa migliore è l’ironia con cui è trattato il tema. Confesso di aver letto il libro di Heller solo ultimamente, dopo essere stato scritturato per la serie. "Catch 22" è diventato un modo di dire in America, una situazione da cui non si scappa, impossibile da risolvere.
La miniserie è fedele al romanzo e alle sottotrame e stratificazioni».
Come è il suo personaggio?
«Mi sono divertito a elencare gli aggettivi con cui l’autore nel romanzo lo descrive, una cinquantina in poche pagine: mascalzone, spiritoso, ironico, sporcaccione ( ride). Si capisce che Marcello è un personaggio con cui Heller si divertiva molto».
Crede che il suo personaggio sia una sorta di riflessione sull’Italia di allora?
«Credo di sì, e a me ricorda Pasqualino Settebellezze e la scena famosa in cui il protagonista tenta di sedurre la kapò tedesca, e questa gli fa tutto un discorso in cui dice: "Noi siamo quelli che perderanno, voi no, perché avete il verme mediterraneo". Perché l’italiano sopravvive comunque, pensate alla fantasia dei napoletani. Ho abitato dieci anni a Napoli e sono molto orgoglioso di aver conosciuto i napoletani. Non li fregherete mai. Ecco perché la sopravvivenza è alla base di tutto. Sono maestri. Forse mi hanno scelto per questo».
Come è stato lavorare con Clooney?
«Clooney è fantastico, mi teneva i cartelli con le mie battute vicino alla cinepresa, così potevo leggerli. Perché la mia scena è un monologo lunghissimo, che devo fare in un inglese stentato, con l’accento italiano. Neanche so chi mi dirigeva in quella scena a dire la verità, forse tutti e due, lui e la Kuros».
Cosa pensa del messaggio antimilitarista?
«Bisogna sempre essere contro la guerra. Quando ho visitato il set in Sardegna c’erano aerei d’epoca portati dalla produzione, e ho chiesto se avevano gli Stukas, quelli tedeschi. Da piccolo, a due anni, una volta viaggiavo su un camion di patate, mia madre mi teneva, e c’era uno Stukas che mitragliava la strada. Per fortuna io e mia madre ci buttammo nel fossato a lato della strada. Voglio dire: ho davvero vissuto quel periodo. Mi sembra di ricordarlo esattamente. Fin quando ci saranno interessi particolari, petrolio o che so io, ci saranno le guerre. È un discorso complesso, ma è bene che questo tipo di film si faccia. A Clooney interessa molto questo tema. È uno politicamente impegnato con delle idee giuste».
Le piace l’idea di essere ricordato nel mondo per i suoi film con Lina Wertmüller?
«Certo, ho lavorato molto con lei, 24 ore su 24. Allora non c’era questa fretta, questa ansia. Ero anche il produttore di alcuni dei sui film. Pasqualino Settebellezze era un film che non voleva far nessuno, perché parla di un campo di concentramento. È una storia vera. Sono riuscito a convincere Lina a farlo e ha avuto quattro candidature all’Oscar. Ne sono molto orgoglioso. Poi Roberto Benigni fece La vita è bella... ».
Poi ha lavorato anche in grandi produzioni americane...
«Spesso mi chiedono qual è la differenza fra un film americano e uno italiano, e io dico che per un attore non c’è nessuna differenza.Devi stare sempre davanti alla macchina da presa. C’è qualcuno che dice: action, e tu ti attivi. La differenza è per un giovane regista che esce dal Centro Sperimentale con pochi mezzi rispetto a Ridley Scott che ha tutto quello che vuole.Ma per un attore non cambia nulla».
Davvero nessuna differenza?
«Oddio, una volta con Tony Scott su Man on fire c’erano 27 cineprese allo stesso tempo. Ma la differenza è per chi decide di fare il regista e si trova con una grande produzione.
Mi viene in mente la volta in cui ho lavorato con Guillermo del Toro, era giovane, veniva dal Messico, era un film dell’orrore, il suo primo lavoro in America ( Mimic, del 1997, ndr), aveva scenografie bellissime.Guardavo le inquadrature con lui, io italiano e lui messicano, e dicevo "accidenti, hai fatto delle cose tipo Kubrick, guarda che spazi, che obiettivi...". E lui mi diceva: "Zitto zitto che questa è la prima e magari ultima volta che lo faccio. Speriamo che mi vada bene!". Come regista era contento di avere grandi mezzi, e poi è diventato quello che è diventato, è bravissimo.Ma per un attore non cambia nulla.Sei lì e devi recitare. Punto».
Sempre più spesso grandi registi e attori lavorano per la tv. Cosa pensa del dibattito "cinema contro streaming"?
«Guardi, il mondo è cambiato, e molto. 30 o 40 anni fa Fellini, sul set, mi diceva: "Giancarlino, il cinema è morto". "Come, è morto?" gli chiedevo io. E lui: "Andremo al cinema come a un museo, a malapena vedremo quel raggio di fumo che attraversa quel raggio di luce". Aveva ragione.Il linguaggio sta cambiando. Non sappiamo cosa succederà. Siamo ai primi passi. Non so se sarà sostituito dallo schermo del telefonino, ma è certo che il grande schermo sta finendo. In Italia tutti stanno vendendo i cinema, e anche nel resto del mondo. Ma sono sempre curioso del futuro: io sono nato come perito elettronico industriale, quindi queste cose le studiavo a scuola: cos’è l’immagine attraverso l’etere. Il digitale ha stravolto tutto, forse è andato troppo veloce, nel bene e nel male, ma le grosse sorprese non mancheranno mai».