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 2019  febbraio 15 Venerdì calendario

Intervista a Liam Neeson, accusato di razzismo

«Non sono razzista». Liam Neeson lo dice quasi a togliersi un peso. Una settimana fa, alla giornalista dell’Independent Clemence Michallon aveva detto che c’è stato un tempo in cui si era trovato con la voglia di uccidere un uomo di colore, uno a caso, per vendetta. Una dichiarazione che è già costata la cancellazione della prima newyorchese del film che lo vede protagonista, «Un uomo tranquillo» (al cinema dal 21 febbraio) e che continua giustamente a far discutere, oscurando il film di Hans Petter Moland. Rifacimento di «In ordine di sparizione», pellicola del 2014 dello stesso Moland, «Un uomo tranquillo» racconta la storia di un padre che si vuole vendicare degli assassini del figlio, ma sposta la scena dalla Norvegia al Canada. «Mi è stato chiesto come mi sono immedesimato nel personaggio. E io ho raccontato questa storia: 40 anni fa una cara amica fu stuprata da un nero. Ho provato un desiderio di vendetta primario, animale. Per giorni sono andato nel quartiere nero di Dublino sperando che qualcuno attaccasse briga con me in modo da poter sfogare la mia violenza». Neeson si rende conto di quello che sta dicendo: «Era sbagliato allora e lo è adesso, lo so. È orribile. Me ne resi conto io stesso dopo poco. Parlai con un prete, andai in terapia, mi aiutò camminare per due ore al giorno da solo. Non sono razzista. Se lo stupratore fosse stato bianco avrei reagito allo stesso modo, non che questo mi giustifichi, lo so».
Qual è l’insegnamento in tutta questa storia?
«Che bisogna parlare, aprirsi, raschiare la patina del politicamente corretto per affrontare temi scomodi. E che la vendetta genera solo vendetta, l’intolleranza genera intolleranza. Quando giravo “Schindler’s List”, più di 25 anni fa, ricordo i commenti antisemiti, ricordo le svastiche sui muri nel percorso dall’albergo al set. L’intolleranza va combattuta tutta, sempre».
La vendetta può essere un tema leggero?
«Bisogna sorridere della tragedia umana. L’unica cosa su cui non riesco a ridere è Trump. Voler ferire qualcuno che ha ferito la tua famiglia è una spinta primaria, ma la vendetta non genera vincitori. Sono cresciuto nell’Irlanda del Nord, durante gli anni più turbolenti quindi è un tema per me familiare». 
L’umorismo nero fa parte della sua formazione di attore?
«Mi sono formato guardando commedie in stile vaudeville, un genere dove non si dicevano parolacce. Venendo in America ho scoperto comici come Robin Williams e i fratelli Coen, così diversi da tutto il resto». 
Quando guarda indietro alla sua carriera, vede un filo comune?
«Non saprei. All’inizio ero solo felice di lavorare. Prima del cinema ho fatto teatro per cinque anni, poi John Boorman mi chiamò per “Excalibur” nel 1980 e mi innamorai di questo mondo. Da lì la mia priorità è stata lavorare, senza un piano preciso. Mi sono trasferito a Londra, a Los Angeles. Sono andato dove c’erano le occasioni». 
Anche la svolta con i film d’azione è arrivata per caso?
«Sono già passati dieci anni. Incredibile. Credo che il sole su quel genere stia tramontando, di sicuro il mio sì. Sono stato fortunato a farne parte e lo dico con umiltà. Nel nostro mestiere si è come sulle sabbie mobili, ma va bene così». 
Si è mai pentito di un film che ha rifiutato?
«No. Anni fa dovevo fare “L’Ultimo dei Mohicani”. Non ricordo perché poi non andò in porto. Lo fece il mio amico Daniel (Day Lewis, ndr) e fu superbo. Quando lo vidi pensai: “Meglio così, è molto più bravo di me in questo ruolo”». 
Dopo più di trent’anni negli Stati Uniti, che cosa le è rimasto di irlandese?
«Sono sempre un meticcio. Lo scorso Natale ho fatto uno di quei test del Dna che oggi fanno tutti. Credevo di risultare 100% irlandese invece sono per il 6% portoghese». 
L’amore per la Guinness?
«Sono sei anni che ho smesso di bere. Avevo cominciato a 21. Da bambino ero solito accompagnare mio nonno ai funerali. Camminavamo per ore per andare al funerale di qualche povero cristo amico suo e poi sulla via del ritorno ci fermavamo al pub. Mio nonno si sedeva e ordinava Guinness. A me dava un sacchetto di patatine. Poi lui iniziava a parlare con il barman e aspettava che la schiuma si posasse. Quando nel bicchiere era tutto fermo e calmo, allora beveva. Ricordo ancora l’espressione di contentezza sul suo viso. E io pensavo: “Quando sarò grande, lo farò anche io”».