Dopo la vittoria a Sanremo 2018, quanto ti aspettavi questo successo?
«Non avrei mai pensato di poter fare una tournée nei palasport e di mandarla così velocemente sold out, con una data anche allo Stadio Olimpico. Tutto questo dopo appena un anno non è normale. Non potevo sperare di meglio».
Quanto è difficile non perdere la testa e non svegliarsi convinti di essere una divinità?
«C’è il rischio a volte di sentirsi sempre vincenti. Ma non sei vincente tu, lo sono le persone che ti danno fiducia e questo non va mai dimenticato perché bisogna metabolizzare il concetto che è la gente a far sì che tu possa essere un artista. Devi saper accettare i cambiamenti, nel bene e nel male».
Parliamo dei tuoi due festival: uno da esordiente, nell’altro eri già un artista di successo.
«Sono arrivato a questo Sanremo con delle cose fatte ma anche con due mesi in cui sentivo dire che sarei stato il vincitore. La responsabilità con cui ho partecipato è stata molto importante. La musica non può richiedere questo tipo di responsabilità, ne comporta altre. Non sono stato in grado di gestire questa responsabilità».
È dovuto anche all’età, probabilmente, e all’esperienza.
«Assolutamente. Pago il fatto di avere 23 anni e di essere sempre schietto, nel bene e nel male. Non mi piace fare tanti giri di parole per dire una cosa, è una cosa che pago e sicuramente pagherò ancora. Ma quanto è bello dire quello che ci pare!».
La gente però si aspetta anche questo da un artista: “mi rode e si vede”. Si lega anche al tuo proporre musica vera. L’importante è che non ti roda sempre.
«Posso assicurare che non è così. Questa è una delle prime volte in cui parlo dopo quell’episodio. Uno può dire qualsiasi cosa sulla canzone (di votazioni non voglio più parlare), ma mi è dispiaciuto davvero della strumentalizzazione della parola “ragazzo”, riferita a Mahmood, che non aveva assolutamente una connotazione razzista. Perché se sono razzista io, lo siamo tutti. Quella è l’unica cosa che mi fa male. È il problema delle fake news: se sui social qualcuno posta un video in cui è in lacrime e dice “tale artista mi ha dato un pugno in faccia”, la cosa diventa virale, e anche se l’artista in quel momento è dall’altra parte del mondo diventa quello che ha picchiato una ragazza. Poi verrà dimostrato che lui era da tutt’altra parte, ma intanto è passato per quello che picchia le ragazze».
Ad aprile arriva il nuovo album, “Colpa delle favole”.
«È la continuazione dei primi due. Pianeti ho cominciato a scriverlo perché ero arrabbiato, volevo sbranare tutto; con Peter Pan ho usato la metafora del personaggio per evadere dal quotidiano. Colpa delle favole nasce dalla domanda se sia un’illusione o un sogno: in questo disco dico che non è colpa mia se tante cose mi hanno illuso, ma è colpa proprio della favole».
Il 4 luglio c’è il concerto allo stadio Olimpico, e non è poco.
«Ho tante ansie quando devo esibirmi, ma una cosa che non mi fa paura è il numero di persone che avrò davanti. La sensazione che provo è la stessa. Poi magari lì sarà diverso… Quello che emoziona tanto è guardare gli occhi delle persone e trovare te stesso in quegli sguardi. È la condivisione dei sentimenti, anche dei dolori: per questo il concerto è una cosa che mi fa bene. Mi fa sentire capito».
Ti sei sentito incompreso a lungo?
«Sì. Avevo una grande voglia di suonare, ma sono stato scartato anche dai talent. Scrivo sempre cose molto vere, ma a un certo punto ho pensato di non poter essere capito. Mi sono sostenuto da solo, nessuno mi ha incitato a continuare. Ma ho sempre pensato che nella vita il piano B è una grande cazz***. La vita è troppo breve per non fare quello che desideri».
All’Olimpico avrai una megaband?
«Sì, vorrei fare qualcosa che spero possa restare».