la Repubblica, 15 febbraio 2019
Se Shakespeare non è Shakespeare
Ci risiamo. Un nuovo studio, appena uscito in Gran Bretagna, riapre il dibattito.
Shakespeare non era solo Shakespeare. No, a mettere le mani sui suoi capolavori fu anche, per lo meno, Sir Francis Bacon (1561-1626). E magari anche qualche anonima autrice nelle opere in cui i personaggi femminili prevalgono per forza e intensità. Così vorrebbero dimostrare con la loro ricerca – Francis Bacon’s Contribution to Shakespeare (pubblicata dalla casa editrice Routledge) – Barry R. Clarke e Mark Rylance. Non ho niente contro il dubbio, anzi sono convinta che dubitare faccia bene alla mente, fluidifichi il passaggio del sangue nel cervello, sblocchi le arterie da coaguli e ostruzioni che possono essere pericolosi.
Ma mi sgomenta l’ostinazione, e in specie l’ostinazione che torna e ritorna su questioni già risolte. Perché allora mi pare che più di dubitare si tratta di menare il can per l’aia. Ho ascoltato pensosi pedanti con aria sussiegosa, con fare esoterico blaterare che loro sì sapevano chi è Shakespeare, non certo quello che tutti pensano sia. E fare vari nomi, e ipotesi le più diverse – perfino che Shakespeare fosse italiano.
O forse era la regina Elisabetta?
O perché no? Proprio Francis Bacon, eletto al Parlamento, Solicitor general, Attorney general, Guardasigilli e lord Cancelliere, condannato per peculato e incarcerato nella Torre di Londra, graziato dal re Giacomo, e inoltre giurista, saggista filosofo. Come avesse avuto poco da fare, qualcuno ipotizza che abbia scritto lui i drammi di Shakespeare.
Già nell’Ottocento fece il suo nome un’americana che si chiamava, guarda caso, Delia Bacon e venne in Europa e si precipitò a Stratford e voleva riesumare cadaveri e dimostrare chissà che… Non le fu concesso. La signora tornò a casa sua e finì la sua vita in un manicomio. Un altro tipo appassionato – si chiamava Looney, che già nel nome allude a un temperamento lunatico: nomen omen, verrebbe da dire – si intestardì a dimostrare che il cigno di Avon era in realtà un aristocratico, il conte di Oxford Edward De Vere, generoso patrono di compagnie di attori e musicisti.
È una teoria che affascinò anche Freud. Ora, che Looney si fosse fatto quell’idea non stupisce: è un americano medio, e forte è l’ammirazione per l’aristocrazia dell’americano medio, vaga nostalgia di qualcosa che l’America non ha avuto. Mentre nel caso del viennese e sofisticato Freud stupisce che anche lui aderisse a una teoria che con termine attuale giudicherei oggi piuttosto politically incorrect, basata com’è sulla convinzione sprezzante che un povero commoner, un plebeo, un uomo qualunque, che non sia stato neppure all’università, non possa essere un genio. Come se non si riuscisse a credere, sì, ancora oggi c’è chi non ci riesce, che un povero cristo qualunque, come erano in gran parte i drammaturghi elisabettiani, non potesse scrivere drammi eccelsi come quelli che scrisse Shakespeare.
Perché non c’è dubbio, quei drammi presuppongono del genio.
Per dire come cambiano i tempi e quanto contano le idealità politiche di epoca in epoca, nel Romanticismo tedesco si apprezzò Shakespeare proprio perché era un uomo qualunque: in lui parlava il popolo. E per la stessa ragione lo esaltavano i Romantici inglesi. I quali erano poeti e in quanto poeti intimi al mistero della creazione poetica.
Che – ne erano convinti – non ha niente (o poco) a che fare con l’aver frequentato l’università, essere stato istruito alla conoscenza della filosofia, o l’essere intimo al mondo aristocratico e a proprio agio con le buone maniere.
Anzi, direi che leggendo Shakespeare, e cioè le sue opere – perché così inviterei a pensare a Shakespeare, come al nome che diamo a un corpus di opere – lì troveremo in verità la prova provata che non poteva essere né un aristocratico né un filosofo, ma solo quello che era: e cioè un uomo di teatro che del teatro conosceva tutti i misteri, e di quella pratica compositiva sfruttava tutta l’aleatorietà, il caso, la stravaganza; e cioè, tutte le qualità proprie di quel modo speciale di creazione che è per l’appunto l’arte drammatica. Shakespeare era un capocomico che conosceva benissimo la sua compagnia e sapeva benissimo che in quella stagione aveva un ragazzo perfetto per una certa parte femminile, e allora ecco che inventa Giulietta; e due gemelli adattissimi ed ecco che costruisce la trama plautina della Commedia degli Errori. E sì, certo, l’arte teatrale è quant’altre mai collaborativa e Shakespeare non si tira indietro, se c’è da collaborare. E perché no? Copia, ruba da Plutarco, da Ovidio, da Giraldi Cinzio… Ruba anche dai suoi contemporanei, anche da Marlowe, senz’altro. È da lui che impara a modulare quel meraviglioso verso, il blank verse, che è la vera materia del corpus delle sue opere. Ma lo fa nel modo proprio della gilda degli attori e dei teatranti, gente poco raccomandabile in fondo.
No, non vedo un filosofo o un aristocratico in disguise adattarsi a quegli ambienti.
La verità è che la questione dell’autorialità è complicata: perché nella costruzione del testo teatrale concorrono tante mani diverse, quelle dei compositori, degli scribi – anche gli attori fanno la loro parte. E chissà quante volte dimenticando una battuta ne inventavano un’altra. E se una rappresentazione andava per le lunghe, chissà magari abbreviavano. Per averne un’idea, basta leggere la scena delle prove degli attori bifolchi nel Sogno di una notte di mezz’estate. Ora da tempo con metodi innovativi squadre di filologi di varie università americane e britanniche, affidandosi anche a esperti linguisti computazionali, ci istruiscono sul fatto che vi sono le impronte digitali di Marlowe nell’Enrico IV e quelle di Shakespeare in Arden of Faversham. Addirittura, la Oxford University Press – anche per convincere a comprare un’altra copia di un testo che magari già abbiamo – fa comparire sul frontespizio del sequel intitolato a Enrico IV due nomi, Skakespeare e Marlowe.
Ma qui non è solo in questione un modo di comporre un testo; piuttosto interessa in che mente si accenda la fiamma della creazione. La vera passione, credo, che muove alla domanda: chi è Shakespeare?
forse viene dalla volontà di toccare la fucina espressiva di quel miracolo che è Shakespeare. Forse dietro il dubbio che Shakespeare non sia Shakespeare c’è, ed è commovente, la meraviglia.
Forse la domanda nasconde uno stupore. E dietro le più bizzarre ricostruzioni c’è il riconoscimento della grandezza di un corpus di opere che non finiscono di dilettare l’umanità per la loro grande bellezza aristocratica e profondità filosofica. Pur non essendo Shakespeare né aristocratico, né filosofo. In fede mia.