il Giornale, 15 febbraio 2019
Samir, primo jihadista italiano
«Sono stato un terrorista, ma adesso è finita e grazie a Dio sono ancora vivo. Spero un giorno di tornare a vivere normalmente in Italia con mia moglie ed i figli». Si presenta così il primo jihadista italiano dello Stato islamico catturato dai curdi nel nord est della Siria. Samir Bougana, figlio di immigrati marocchini, ma cittadino del nostro paese, è nato nel 1994 a Gavardo in provincia di Brescia, un paese di 12.930 abitanti. Dopo lunghe trattative le Forze democratiche siriane, che l’hanno fatto prigioniero il 27 agosto scorso, concedono l’autorizzazione all’incontro. Un curdo in mimetica, kalashnikov e cappuccio in testa, per non farsi riconoscere, lo sorveglia di continuo. Basso, senza il barbone islamico di quando è stato preso sembra dimesso e chiede un tè quando arriva ammanettato per l’intervista.
«Mi sento legato al paese dove sono nato e ci penso sempre – esordisce il giovane tagliagole – Ancor più adesso che sono stato imprigionato dai curdi. Mi hanno detto che forse verrò trasferito in Italia». In realtà nessuna nazione europea vuole riprendersi gli oltre mille volontari stranieri della guerra santa catturati dai curdi dopo la caduta di Raqqa, storica capitale dello Stato islamico. Samir parla bene l’italiano dopo avere frequentato «l’Itis, Istituto tecnico industriale fino al 2010» in provincia di Cremona. Al miliziano dello Stato islamico si illuminano gli occhi quando ricorda «gli amici di Piadena, dove ho vissuto per dieci anni e sono cresciuto con la squadra di calcio e la scuola». Samir giocava come centrocampista del Gs Martelli del paese lombardo di appena 3417 anime. «Ho ancora dei parenti in Italia: zie a Piadena e in Sicilia. Non sapevano che mi ero arruolato nell’Isis. Solo i miei genitori ed i fratelli erano a conoscenza» sottolinea Samir. La famiglia si sposta in Germania nel 2012 dove inizia la deriva integralista. «Quando ci siamo trasferiti ho iniziato a frequentare delle moschee ed è scoppiata la guerra in Siria – racconta l’italiano dell’Isis – Su internet seguivo i video discorsi degli sceicchi sauditi, che sostenevano fosse un nostro dovere aiutare in qualsiasi modo il popolo siriano». Samir viveva a Bielefeld, a soli 26 chilometri da Abu Walaa, un predicatore jihadista che reclutava combattenti per la Siria. Walaa era il mentore di Anis Amri, il terrorista del mercatino natalizio di Berlino scarcerato dall’Italia nel 2015.
Samir sostiene di avere sentito parlare solo del predicatore jihadista. «A fine 2013 tanti europei erano arrivati in Siria – ricorda – Vedevo le immagini della guerra e delle violenze. A 19 anni mi sono detto: lo faccio pure io». Il contatto è un mujahed europeo che verrà ucciso in combattimento. «Mi ha dato il numero di un siriano in Turchia. Ho preso normalmente l’aereo da Dusseldorf ad Istambul con mia moglie, Fatma Binol, tedesca di origini turche – rivela -. L’appuntamento era ad Antakia nel sud del paese. Ci ha caricato in macchina portandoci al confine. Era facile, non c’erano né polizia, né controlli. Un altro contatto ci ha accolti in Siria».
A nord di Latakia, l’ultima zona ancora oggi in mano ai ribelli jihadisti, «dei volontari tedeschi e francesi mi hanno invitato ad arruolarmi nella brigata Jund al Sham (l’Esercito del Levante legata ad Al Qaida nda). Sono stato addestrato a sparare con il kalashnikov e a usare altre armi e pistole». L’istruttore è un ceceno e Samir conferma che «i combattenti più duri, freddi e cattivi sono quelli che vengono dalla Russia. Non hanno misericordia». Nelle moschee «le prediche ci incitavano a uccidere gli infedeli così loro andranno all’inferno e noi in Paradiso».
Ad un certo punto la banda di mujaheddin europei si convince che «l’Isis è più forte, potente e sicuro per le nostre famiglie. Così ho deciso di andare con mia moglie a Raqqa. Una volta arrivato sono entrato nello Stato islamico». Alla fine del 2014 «mi hanno mandato a Deir Ezzor inquadrato in un’unità ribat (fortificazione di prima linea). Ero un soldato dell’Isis e pattugliavo le strade di notte» spiega Samir, molto reticente sui combattimenti. A Raqqa le moschee amplificano «i messaggi sulla Jihad, la guerra santa». E nell’estate del 2014, quando Abu Bakr al Baghdadi, fonda il Califfato a Mosul, il terrorista italiano è convinto «che stavo facendo la cosa giusta perché lo Stato islamico era potente e contava su un territorio importante. La gente ci ringraziava». Pazienza se all’unica chiesa di Raqqa «avevano tolto la croce ed era stata trasformata in una base». E se le esecuzioni dei prigionieri sono pubbliche e brutali. «All’inizio pensavo di aiutare la popolazione, che fosse bello – spiega Samir – Poi mi sono reso conto di avere fatto un grande errore».
Sulle stragi jihadiste in Europa ricorda con un sorrisetto beffardo, che «dopo Bruxelles o Parigi ci mostravano i filmati degli attentati sui maxi schermi in piazza a Raqqa. E facevano vedere anche i video delle esecuzioni. La gente stava lì a guardare con la moglie ed i figli». Samir rivela che «lo Stato islamico ci dava una casa e 150 dollari si stipendio. I soldi arrivavano dal contrabbando di petrolio» con la Turchia. I capi delle falangi straniere sono tunisini e sauditi. A Raqqa «ho conosciuto due o tre (mujaheddin) di origine algerina e marocchina, che hanno vissuto per qualche anno in Italia e si sono arruolati nello Stato islamico». A partire dal 2015 cambia tutto. «Ti svegliavi alla mattina e non sapevi se arrivavi vivo a sera per i bombardamenti – spiega il jihadista di casa nostra -. Gli americani colpiscono obiettivi mirati come le basi o le case dei ribelli, ma i russi no. Bombardano anche i mercati».
In Siria la famiglia jihadista si allarga con tre figli: Isha, Abdullah e Zeinab, che ha solo un anno e mezzo. «Le bombe più vicine sono arrivate dietro la casa alla fine del 2016 – racconta Samir -. La pressione e il rumore erano fortissimi. Il lampo iniziale, il fumo e l’incendio mi hanno fatto capire che dovevo andarmene. Avevo paura per l’incolumità della mia famiglia». Samir sostiene di non avere partecipato alla battaglia di Raqqa, definitiva sconfitta dello Stato islamico, ma di essersi rifugiato a Deir Ezzor, l’ultima sacca. «Alla fine c’era il caos. Tanti (mujaheddin) volevano tornare in Europa attraverso la Turchia – spiega -. Avevo il passaporto italiano e pensavo di consegnarmi alla nostra ambasciata a Istanbul. Sapevo che sarei andato in prigione, ma non avevo altra scelta. Ricercato dalla Germania e dall’Italia non potevo rimanere nascosto» per sempre. Nell’agosto scorso Samir e famiglia si affidano «a un trafficante che voleva 2000 dollari a persona per portarci in Turchia. Ma invece lo stesso giorno ci ha consegnato alle forze curde vicino a Raqqa. Lavorava per loro».
L’obiettivo del terrorista è palese: «Spero di venire trasferito in Italia, dove la prigione è sicuramente migliore di quella dei curdi». Adesso che è dietro le sbarre si dice «pentito di avere aderito allo Stato islamico». E si rende conto che non tornerà presto libero: «So che devo pagare per quello che ho fatto».