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 2019  febbraio 14 Giovedì calendario

Intervista a Mario Martone

Racconta un periodo di trasformazioni oscure, dove si cancella il passato senza sapere cosa sarà dopo. Una storia che risuona di echi così simili al nostro tempo che genialmente, lui, l’ha allontanata nel futuro, in un mondo "scoppiato", post-apocalittico, di edifici diroccati e paesaggi sepolti nel ghiaccio che fanno venire in mente il gelo dell’anima del cinema di Tarkosvkij e le allucinazioni di quello di Von Trier. La Chovanš?inadistopica e visionaria di Mario Martone, che si vedrà con un cast russo e sul podio Valery Gergiev, alla Scala dal 27 febbraio, ha tutta l’aria di essere l’immagine profetica di un brutto mondo in cui rispecchiarci (la scena è di Margherita Palli), un furibondo susseguirsi d’intrecci, menzogne, spietatezze, fanatismo, alleanze e tradimenti, perfino appassionante, tanto che lo stesso regista afferma «sarebbe una serie tv strepitosa». L’opera è un gioiello della scuola musicale russa di fine Ottocento, «bella anche nei dialoghi così teatrali», immersa nel pessimismo del suo autore, quel genio solitario, alcolizzato di Modest Musorgskij che non riuscì a completarla perché morì nel 1881. Un’opera radicale nel modo di rileggere un momento cruciale della storia russa, la fine del Seicento, con la rivolta dei Vecchi Credenti guidati dal principe Chovanskij da una parte e le riforme di Pietro il grande dall’altra.
«Un periodo dove tutto diventa un tragico conflitto, individuale e collettivo», racconta, in camerino, in una pausa delle prove della sua terza regia scaligera, Mario Martone che in 40 anni di teatro e cinema, da talento emergente che segnò il rinnovamento delle giovani energie creative alla fine degli anni Settanta a regista affermato, ha raccontato molto, e con passione civile, il tema delle trasformazioni storiche, fino al recente Capri revolution.
"Chovanš?ina" sembra un proseguimento ideale.
«Musorgskij si è immerso nella storia della Russia e ne è riemerso con un procedimento rosselliniano. Solo che lui ha riassemblato i vari pezzi come un quadro cubista, che mostra la storia russa in una dimensioneallucinata, senza cronologia, ma episodi e personaggi slegati. Un mondo esploso, molto evocatore per noi. Appiattirlo sul presente sarebbe stato semplicistico. Vederlo con lo specchio distopico, che riattraversa la storia, da Pietro il grande a Musorgskij a noi, ci spinge dalla cronaca verso il destino».
Il tema del conflitto tra passato e modernità, molte volte si è ripetuto nella storia.
Perché qui è così cupo?
«Più che modernità contro arcaicità qui è un tutti contro tutti. Chovanskij, il potere militare, protegge Pietro e la zarina ma è pronto a tradire con la terribile milizia, gli strel’cy. Golicyn, il "moderno", lo ritroviamo preda delle superstizioni. Dosifej il capo dei Vecchi credenti, non risparmia violenza. E quanto al "nuovo" parliamo di uno zar bambino, che una volta adulto farà riforme ma da dittatore spietato. Persino il popolo è violento, ignorante. C’è una frase di Musorgskij che si può dire tale e quale per Napoli: "non mi sfugge quella sua pigra astuzia dissimulata sotto la maschera della bonarietà; come non mi sfugge il dolore che realmente lo affligge"».
Russia e Napoli. Centra qualcosa col fatto che subito dopo farà due film sulla sua città?
«Uno l’ho fatto, Il sindaco del rione Sanità, di Eduardo, dallo spettacolo teatrale dello scorso anno con lo Stabile di Torino e gli attori del Nest. Il film è lo spettacolo riambientato nei luoghi "veri" di Napoli e sarà un apripista per l’altro film, su Eduardo Scarpetta che farò questa estate con Toni Servillo con cui torno a lavorare dopo molti anni. Da Eduardo risaliamo al padre, così come dal capraio del rione Sanità, in una sorta di continuità cubista come Musorgskij, ero passato alla capraia di Capri Revolution. E se lì si apriva un orizzonte ignoto, ma con la forza e la novità del femminile, ora si torna sull’altro lato del mare...».
Pessimista come Musorgskij?
«Valori in campo non ce ne sono in Musorgskij e temo nemmeno nel nostro tempo, dove chi parla di valori rischia di venire deriso, accusato di buonismo. Anche in Italia accadono cose folli, non solo in Chovanš?ina.Come altro definire 24 disgraziati su un barcone che non riescono ad approdare? Se ti stacchi dalla cronaca e lo vedi come fossi tra duecento anni le inquietudini vengono. Eravamo uno accanto all’altro nelle piazze, ci ritroviamo ognuno a casa propria davanti a un telefonino. È una trasformazione antropologica e siamo la prima generazione a viverla. Il punto, come dice Leopardi, è capire se la transizione è dal peggio al meglio o dal meglio al peggio».